IL SOGNO DI MITZI
Di ROSSANA GIROTTO
Il cielo è una coperta rosa che il tramonto distende sopra la laguna.
Pian piano si accendono le stelle, insieme ai lampioni in riva al Lido.
I gabbiani lasciano i loro posti in cima alle bricole, i vecchi pali di legno nei canali, e si alzano in volo. Mitzi li segue con lo sguardo. Chissà dove vanno a dormire, i gabbiani.
Li vede virare in formazione verso l’ isola di San Michele. Forse si accoccolano tra le tombe monumentali, o tra i rami degli alberi centenari. Oppure se ne stanno tutti vicini nell’isolotto senza nome, sulla rotta dei pescherecci e delle chiatte che portano l’immondizia lontano.
Li guarda volare via, Mitzi, e le viene naturale fare “mé-mé”, quel verso un po’ stizzito che fanno i gatti quando vedono un pennuto spiegare le ali e alzarsi nell’aria.
Soprattutto quegli antipatici di piccioni. Zampettano a terra, tu pensi che non sappiano volare, e poi PUF! fanno un saltino, sbatacchiano le ali e raggiungono una bifora, o un cornicione, lassù. E addio preda. Perché Mitzi è una gattina di Venezia, sestiere di San Marco per la precisione, e nonostante riesca ad arrivare molto in alto, sui tetti e le altane, ha un sogno: volare. Almeno per un’ora, sopra il mare, sopra le isole, per sentire l’aria veloce tra le vibrisse e guardare giù, quel grande pesce che si chiama Venezia.
Mitzi ha scoperto che la sua città ha quella forma sbirciando la mappa di uno dei tanti turisti che di solito si fermano sotto il suo davanzale, in Corte Dei Risi.
Il tizio aveva dispiegato la cartina tracciando crocette con una matita e così lei lo aveva visto, quel pesce tondeggiante in mezzo all’azzurro.
E lo aveva sognato, nei suoi interminabili pisolini.
E ne aveva cercato i contorni: prima salendo tutta la scala del Bovolo, e poi passeggiando tra i camini lungo le Rive e le Fondamenta.
Si era anche arrampicata fino in cima al campanile di San Luca ma, una volta poggiate le zampine sui primi coppi del tetto, le era venuta paura. Erano arrivati i pompieri che, ormeggiata la bettolina nel canale, avevano allungato la scala meccanica e l’avevano portata a casa, tremante dentro un casco rosso.
Adesso, ogni volta che entrava in cucina vedeva il ritaglio del Gazzettino con il suo musetto tigrato in primo piano, in bella mostra sopra la mensola delle spezie.
Che vergogna!
Ma il sogno cresce nel suo cuoricino di gatto, i sonnellini e le fantasie non le bastano più. Deve provarci.
Mitzi si rende conto che le serve un buon consiglio e così, un dopopranzo, esce di casa e raggiunge Campo San Trovaso, dove la colonia di gatti randagi si scalda sotto il limpido sole invernale, in mezzo alle aiuole ingiallite e ai cartoccetti di avanzi.
“Volare?” si stupisce il vecchio gattone nerissimo, che chiamano Paròn, padrone.
“Che assurdità. Vedete – si rivolge alle decine di occhi e di code che lo circondano – questo è il risultato di abitare con gli umani. La televisione li rimbecillisce, e il gatto domestico li accompagna nella loro involuzione”.
“Non è così – risponde Mitzi, rispettosa– io vivo poco dentro casa. È che Venezia è un pesce, e io voglio guardarlo dall’alto”.
“Un pesce?” Paròn ridacchia.
Un soriano spelacchiato si avvicina: “La micetta ha ragione. C’è un disegno appeso nell’osteria. Stasera, quando lavano il pavimento, metti dentro la testa e lo vedrai”.
“Ma è la piccola del Gazzettino, quella che salì fin quasi in cima al campanile! Che tipetta intraprendente!” esclama una siamese dagli occhi verdi.
“La prova che i gatti non possono volare!” miagola il gattone nero, e si mette a sgranocchiare una seppiolina rinsecchita.
Mitzi sospira. Forse Paròn ha ragione: nemmeno nel glorioso Antico Egitto i gatti volavano.
Eh sì, dovrebbe accontentarsi dei piccoli sogni in cui rincorre lucertole e acchiappa moschini, tuffa il muso in ciotole di baccalà o si rotola in prati soffici e verdi, che non esistono a Venezia.
Un sogno tanto grande non può starci, dentro un piccolo gatto.
Infatti… ecco che quel grande sogno si allarga e allaga l’ultimo cerchio di sole, dove i randagi si sono riuniti, accucciandosi vicini.
Il vecchio Paròn sente che quel calore ha il profumo di un volo.
Fissa Mitzi con i suoi occhi gialli: “Racconta il tuo sogno alla prima stella della sera, che al calar del sole appare sopra San Lazzaro e nel cielo del crepuscolo si sposta fin sulla cupola dorata di Maria degli Armeni, in San Marco. Quella è la stella della Fata Gattina, che da secoli esaudisce i nostri sogni. Lì la incontrerai. E’ un luogo nascosto, ma il percorso è pieno di umani. Non distrarti e non farti catturare”.
La Fata Gattina! Mitzi pensava fosse solo una favola. Però… credere a una favola e credere in un sogno, in fondo non è la stessa cosa?
“Grazie, Paròn-gatto” mormora.
Al ponte dell’Accademia salta sulla balaustra alzando il muso verso il cielo di cobalto. Qualcuno le fa una foto. Vede la stella e, scansando una carezza, corre via, lungo il Canal Grande.
Nel sottoportego degli Armeni trova i mille odori della città: pipì di barboncino, sardina schiacciata, cioccolatino sciolto, cacca di pantegana, mandarino marcio, spritz, pipì di bambino (maleducato).
Il chiarore della stella proietta un’ombra d’argento sul muro della chiesa.
Fata Gattina è un certosino splendente con occhi d’ acquamarina e baffi di diamante.
“È proprio un bel sogno, Mitzi. Fammi compagnia fino all’aurora: volerai con me nel mio viaggio di ritorno”.
Paròn-gatto fiuta l’aria fredda dell’alba. Presto verrà la neve, pensa, e si gratta dietro l’orecchio. Alza gli occhi: Fata Gattina sta tornando a casa, e non è sola.
Sorride, lisciandosi la coda: la micia del Bovolo ce l’ha fatta. Lassù nel cielo sembra un palloncino a forma di tigre, sfuggito a un ambulante.
Sì, Mitzi vola, con il vento nella pelliccia e gli occhi fissi sul grande pesce.
Vola sui giardini segreti, sulle corti nascoste, sui banchi del mercato.
Respira l’aroma dei primi caffè e infine si posa – come un gabbiano! – su una bricola.
Trema di fusa e di felicità.
Nel suo cuore, il calore di una stella.
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