Premiazione de “Il Corto Letterario 2012”

Oggi presso il Salone Varesecorsi sono stati premiati i finalisti del concorso internazionale “Il Corto Letterario” giunto alla sua nona edizione. Letture, proiezioni, solidarietà, editoria, spazi culturali hanno fatto da corollario alla presentazione delle opere ed all’incontro con gli autori che hanno visto come vincitori del premio 2012 rispettivamente per la categoria racconto fino a 10000 battute, Anna Bruni di Milano con COME LA TUA MOTO e per la categoria racconto fino a 7000 battute, Gionata Vanoni di Milano con  VITA COMODA.

Seleziona il titolo del racconto che vuoi leggere con un click e condividi con gli altri lettori commenti e riflessioni sull’opera. Potrai inoltre esprimere fino a 3 preferenze per ogni categoria votando alla pagine di seguito indicate.

 

SEZIONE “A” (10000 BATTUTE)

 VINCITRICE

SEGNALATI

  • Divieti – Renato Bossi – Castel Mella Brescia

CATEGORIA “B” (2600-7000 BATTUTE)

 

VINCITORE

SEGNALATI 

  • La linea – Laura Simonetta – Simo Limo – Varese
  • Cipolle – Isabella Bigatton – Gazzada Schianno

CB

RB – VITA COMODA – GIONATA VANONI

VITA COMODA

Di GIONATA VANONI

 

Se c’è una cosa che non sopporto e che non intendo fare sono i sacrifici. Quando mi dicono che nella vita bisogna faticare, che per ottenere dei risultati bisogna sudarseli,comincio a sbuffare, mi gratto la testa e mi agito tutto. Ho sempre scelto la strada più facile e comoda, ho evitato come la peste qualsiasi sacrificio e mi è sempre andata bene. A parte la scrittura, non ho mai faticato per nulla di veramente importante. Il minimo necessario. Le ore che ho passato sui libri erano piacevoli momenti di riflessione. In un libro trovavo sempre qualche spunto interessante. Quando mi pagavano per scrivere articoli di cronaca era un piacere mettere in fila quattro stronzate e riempire sessanta righe di un giornale che il giorno dopo avrebbe incartato le uova. C’è qualcosa di mistico nel dedicarsi con tanto ardore a un lavoro il cui tempo di fruizione non supera quello che ci vuole per bersi una tazzina di caffè. Quando correggevo le bozze era piacevole farsi pagare per leggere. Entravo alle nove in ufficio e fino alle cinque e mezza non facevo che togliere virgole, mettere accenti, rivoltare frasi, sistemare le concordanze dei tempi verbali. Ero così immerso nel lavoro che mi dimenticavo di fermarmi per mangiare. Il mio capo mi adorava e diceva che non aveva mai avuto un lavoratore così professionale. Per me non era neanche un lavoro, mi divertivo e lui non lo capiva. Dovevo fare un sacrificio. Per giungere in ufficio dovevo fare un’ora e mezzo di viaggio in treno. Ho risolto il problema portandomi dietro dei libri. Le più belle letture della mia vita le ho fatte in treno al mattino presto. Mentre la gente attorno a me dormiva, io sprofondavo nella lettura. Continuavo a leggere anche quando camminavo per strada una volta uscito dalla stazione. Non volevo che un singolo momento andasse sprecato. Quando avevo un impiego in un servizio di cateering mi piaceva scolarmi le bottiglie che tornavano mezze piene dai tavoli. Preparavo ottimi fiori di zucca fritti, sistemavo le decorazioni, tagliavo il prosciutto e preparavo valanghe di riso. E’ allora che ho imparato a cucinare e l’esperienza mi è tornata utile. Ora ho vinto un concorso pubblico e ho un bell’impiego. In tanti non mi credono quando racconto che nella mia vita ho fatto un solo concorso. Non se lo spiegano. Loro prima di entrare in una graduatoria per un posto statale hanno fatto parecchi concorsi in giro per tutto il Paese e si stupiscono che io al primo colpo ho fatto centro. E’ così. Per me è stato semplice: hanno pubblicato il bando, ho presentato domanda nei termini, mi sono preparato – studiare è l’unica cosa che mi riesce bene nella vita – e ho passato il concorso. Semplice. Ora vado al lavoro in bicicletta su una pista ciclabile che attraversa il parco e ci metto quindici minuti. In pausa pranzo me ne vado in piscina e la sera di ritorno mi fermo in palestra. Il lavoro è l’ideale per me. Ha il giusto grado di monotonia che mi consente di pensare. E allo stesso tempo presenta un sufficiente grado di variabilità che mi evita di annoiarmi. In generale non ci sono sorprese né rischi particolari e questo mi dà serenità che poi è l’ingrediente fondamentale che mi permette di dedicarmi con profitto alla scrittura. Gli orari sono flessibili e mi consentono di adattare la giornata lavorativa alle mie esigenze personali. Se una mattina ho bisogno di fermarmi a casa, posso entrare tranquillamente alle dieci, se una sera mi voglio fermare di più al lavoro, posso restare fino alle venti di sera.

Ho avuto diverse donne nella mia vita e sono giunto alla conclusione che mettersene in casa una comporta sacrifici e compromessi. Per questo ho deciso di vivere da solo. Per un periodo una donna è venuta ad abitare con me ed è stata veramente dura. Il bagno si è riempito di prodotti e creme per il viso, struccanti vari, mascara, rimmel, trucchi, piastra per i capelli. Non c’era più lo spazio per mettere il mio spazzolino. I miei vestiti nell’armadio ora stavano in metà dello spazio per accogliere i suoi. Mi sono stupito di quanti vestiti una donna si porta dietro. Io giro sempre con quattro cose messe in croce e vado benissimo. Così ho dovuto separare i vestiti estivi da quelli invernali e fare il cambio armadio al cambio di stagione. E perdere un’intera giornata a spostare indumenti, da sopra a sotto e viceversa. Era pedante. Voleva che tutto fosse sempre pulito, ogni giorno bisognava fare la lavatrice, scopare per terra, fare la polvere. Lo cacciata a pedate. E ora è tornata la pace, magari c’è un po’ di polvere in più, ma il mio spazzolino è lì al suo posto e i miei quattro stracci stanno per bene nell’armadio.

RB – STRADE GIALLE – CHIARA ANDREATTA

STRADE GIALLE

Di CHIARA ANDREATTA

 

Seguire le strade gialle: questo era il sogno di Pacho. Fin da piccolo si era immaginato a percorrerle, passo dopo passo, incurante di dove lo avrebbero portato. Una volta aveva visto dei viaggiatori togliersi la polvere gialla dai calzari, e quell’immagine si era impressa nella sua mente. Col tempo il semplice pensiero era diventato una delicata ossessione. Cresciuto, salutò la sua famiglia e si diresse verso l’inizio della strada gialla.

E partì.

La strada si scioglieva in curve sinuose in mezzo alla distesa ininterrotta della pianura. Il viaggio di Pacho continuava sulla strada gialla, in compagnia del sole e della luna, della pioggia e del vento, della solitudine e del silenzio. In cuor suo non era completamente felice: ma non era quello il suo sogno, la ragione per cui non dormiva la notte? A volte si è come spinti verso qualcosa, di definito o indefinito, da usare come appiglio, come sostegno, e che alla fine diventa appartenenza, senza la quale ci si sente insicuri. A ogni bivio che incrociava, Pacho sceglieva la strada più gialla. Le strade gialle erano l’appartenenza di Pacho.

Un giorno però fu costretto a fermarsi. La strada era interrotta, lastricata a metà con pietre grigie. Pacho rimase sconvolto.

Nell’impossibilità di continuare il suo sogno, si era visto privato del suo bene più grande. Un ostacolo si era frapposto tra lui e le strade gialle, e quell’ostacolo stava distruggendo la sua appartenenza.

Indietreggiò, dimenandosi come per liberarsi da catene invisibili, troppo pesanti per la sua anima.

Indietreggiò ancora, e cadde.

Dalla parete del crepaccio s’allungava una sporgenza. Pacho vi cadde di schiena. Le lacrime si erano mischiate alla polvere, e gli impastavano il volto. Rimase lì, con le braccia alzate sopra la testa.

Una bambina con due trecce corte corte si sedette sul bordo del baratro, a lanciare sassolini giù nel vuoto profondo. Sparivano senza rumore. Ma un sasso lanciato con poca forza cadde sulla sporgenza, e invece del ticchettio ciottoloso, la bambina sentì un gemito. Si sporse, e vide Pacho.

–       Ciao – gli disse.

–       Ciao – le rispose Pacho, con gli occhi chiusi.

La bambina indugiò un attimo.

–       Sei morto?

–       Non lo so.

–       Forse sei un albero. Non ti muovi. Anche gli alberi non si muovono.

–       Invece sì.

–       Non è vero – borbottò la bimba.

–       Si cambiano di posto quando non li guardi.

–       Allora fallo anche tu. Mi giro e non ti guardo.

La bambina si girò e chiuse gli occhi; Pacho li riaprì e riaffiorò dal vuoto.

Nella luce del sole, la strada lastricata s’illuminava di riflessi dorati.

–       Quella è la mia strada – sussurrò Pacho.

–       Allora seguila.

RB – LA LINEA – LAURA SIMONETTA

LA LINEA

Di LAURA SIMONETTA

 

È col buio che arrivano, senza fare rumore. Sagome, forse spettri. Non hanno pace. Come noi, come me. Ogni notte un nuovo attacco da respingere. Ogni notte, il suono a raffica della mitragliatrice, la conta infinita di corpi straziati, mutilati. Morti. Sento il comandante urlare: «Avanti! Mangia crauti figli di puttana, venite a prenderci!» Ma so bene che è il delirio a parlare per lui. La paura non può esistere nella linea tra noi e il nemico. Meglio viverla come una donna da apprezzare con una pacca sul culo, anche quando sul volto ha un sorriso beffardo.

Sono un soldato semplice di trincea, un bracciante strappato alla terra che, un giorno, si riunirà a lei, per non abbandonarla più. I superiori urlano motti di sprono. Io rimango zitto, incapace di capire che quello che mi colpisce sia vero, e non frutto di un incubo. Il mio compito è sempre lo stesso: stare fermo, in allerta, nell’attesa dell’ordine. Solo allora salgo le scale per l’inferno e la notte torna chiara come il giorno. Il cielo si carica di tempesta e i proiettili, come sciami impazziti, ronzano in ogni direzione pronti a infilzarsi nella carne, assetati, come maledette zanzare. Avrei voluto che dal cielo fossero piovute vacche grasse e ben disposte, non bombe e granate. A volte sogno che il fuoco dei nemici arrivi a fermare questo lungo incubo, ma la volontà di vivere è più forte di ogni atrocità, di qualsiasi dolore. L’ho promesso a Giorgio, mio primogenito, a Giulia, mia moglie, e al seme che ancora sta crescendo in lei. Quando tornerò, non sarò più l’uomo di prima. Ma, loro, ancora non lo sanno. Ho perso l’anima in battaglia, naufragata nel primo corpo che ho ucciso, cancellata dalle lacrime per i compagni lasciati sul campo a morire, con gli occhi spalancati sul nulla.

Da qualche giorno non fa altro che piovere a dirotto. Il grasso per gli scarponi è finito e i calzettoni non si asciugano, intrappolati nel fondo della trincea. La temperatura è insostenibile e il freddo sembra aver patteggiato col nemico. Non riesco a muovermi, i piedi fanno male: sono gonfi, arrossati, pieni di vesciche sanguinolente. Il dolore aumenta ogni giorno. Fino a quando sparisce, come la sensazione stessa di non aver più i piedi. Non li sento. Non esistono più. In quel momento l’attacco. Non so muovermi, non posso fuggire, e mi abbandono a chi, forse, lassù può sentire. Il pensiero va al sorriso di mio figlio, all’abbraccio di Giulia, al calore del suo corpo. Il mio urlo più forte dello schianto che cancella ogni cosa. Buio.

RB – L’UOMO SULLA SEDIA FELICE – NERINA FIUMANO’

L’UOMO SULLA SEDIA FELICE

Di NERINA FIUMANO’

 

C’era una volta un piccolo paesino di montagna sperduto fra gli alpeggi e I boschi di noccioli e castagni.

In questo piccolo paesino vivevano poche decine di persone, tutte amiche fra loro, tutte cresciute insieme da generazioni.

L’atmosfera era serena.

Si lavorava.

Si mangiava.

Si dormiva.

Si faceva l’amore.

Tutto come dappertutto.

Ogni tanto si litigava e ci si arrabbiava.

Ogni tanto si era gelosi gli uni degli altri.

Ogni tanto si commettava qualche piccolo reato d’invidia.

Ogni tanto si odiava.

Ma era un microcosmo che funzionava con le sue regole e le sue dinamiche.

Con I suoi umori e dissapori.

Con la vita che scorre anche fra I ruscelli piú impervi…

e la morte che arriva come una cascata improvvisa.

 

Quell’anno l’inverno duró a lungo e fu molto duro. Aveva fatto freddo piú che mai e per mesi la neve  era sta la coperta sotto cui la valle aveva dormito.

 

Il paesino lassú era tornato a rianimarsi ai primi raggi di sole di primavera.

 

E lui, che era l’uomo piú solitario del paese, era uscito all’alba e si era seduto fuori di fronte alla sua casupola, in un punto del villaggio dove sembrava che il cielo toccasse terra.

E non si era alzato piú. Era rimasto lí tutto il giorno.

E il giorno successivo.

E quello dopo ancora…

 

L’uomo si alzava al mattino, e andava laggiú a sedersi in quella che ormai era la sua sedia, fissa lí, solo per lui.

Sedeva guardando innanzi a sé, quasi in estasi, non distraeva lo sguardo quasi mai…fino a sera.

E quando il sole cadeva giú, l’uomo tornava a casa. Tranquillo. Sereno. Gratificato.

 

E ogni giorno era cosí.

Ogni giorno per molti anni.

 

E tutti gli abitanti del paese ormai si erano abituati a lui e alla sua sedia.

All’inizio avevano cercato di smuoverlo e di farlo alzare. Ma lui non rispondeva e guardava fisso davanti a sé.

Cosí la gente aveva pensato che qualcosa in lui si fosse inceppato e che era matto e non si poteva far nulla.

Ma non dava fastidio. Non disturbava nessuno.

Viveva in mezzo a loro, contemplando l’infinito. O I suoi fantasmi.

E tutto andava comunque bene cosí.

 

I bambini saltavano tutto intorno accapigliandosi, le mucche pascolavano nei prati, le persiane si aprivano e si chiudevano, gli amanti si sposavano, i neonati piangevano, le campane suonavano.

E lui restava seduto lí sulla sua sedia.

Una presenza in mezzo alle presenze.

Un apparente nonsenso in un universo di scoiattoli che si arrotolano sugli alberi….e poi sgusciano chissá dove.

 

Passó l’estate.

Venne l’inverno e passó anche l’inverno.

Poi tornó la primavera e l’estate di nuovo, e l’autunno e l’inverno di nuovo…

e poi di nuovo e di nuovo ancora…

e l’uomo sulla sedia rimaneva sulla sedia.

Ogni mattina fino a sera.

 

Con la sua felicitá incomprensibile.

Una felicitá sotto gli occhi di tutti, tutti I giorni.

E l’uomo era diventato il simbolo della felicitá lui stesso.

Tutti gli abitanti del paese quando stavano male o soffrivano guardavno nella direzione della sua seggiolina e si acquietavano.

Perché lui era lí. Felice.

 

 

Ma poi un giorno – il primo giorno di primavera di molti anni orsono – l’uomo non venne a sedersi sul davanzale della montagna.

L’uomo non uscí di casa e non sivide in giro per nulla.

Questa cosa destó grande preoccupazione in tutti gli abitanti del paese.

Nessuno osava bussare alla sua porta per timore che fosse successo quello che é destino per tutti.

Peró alla fine era successo.

L’uomo sulla sedia felice era morto.

 

Il paese si addoloró molto e gli fece una grande cerimonia per ricordarlo e anche I bambini gli dedicarono una poesia e un grande faló che porta bene agli spiriti dei monti..

 

 

Ma la sua sedia era ancora lí, in mezzo al paese sul ciglio dei pascoli di una montagna chissá dove…e stava lí, la sedia, a contemplare l’infinito, come lui.

 

Finché un giorno – l’ultimo giorno di quella primavera che se l’era portato via – una bambina scappata alle cure della mamma…passó lí davanti alla sedia correndo, si fermó titubante, si giardó intorno … e alla fine si sedette.

E nei suoi occhi una luce di gioia e stupore…

 

In quel punto del paese, da quella esatta direzione e per uno strano rifuggire di punti di fuga fra le valli e I letti dei fiumi e per uno strano miracoloso accavallarsi di vie distese lungo la pianura sottostante…per un evento unico e incredibile che solo una volta al mondo puó capitare…da quel punto preciso si poteva godere di un panorama straordinario…

 

E cosí la bimba gridó : “Il mare!”

RB – IL SOGNO DI MITZI – ROSSANA GIROTTO

IL SOGNO DI MITZI

Di ROSSANA GIROTTO

 

Il cielo è una coperta rosa che il tramonto distende sopra la laguna.

Pian piano si accendono le stelle, insieme ai lampioni in riva al Lido.

I gabbiani lasciano i loro posti in cima alle bricole, i vecchi pali di legno nei canali, e si alzano in volo. Mitzi li segue con lo sguardo. Chissà dove vanno a dormire, i gabbiani.

Li vede virare in formazione verso l’ isola di San Michele. Forse si accoccolano tra le tombe monumentali, o tra i rami degli alberi centenari. Oppure se ne stanno tutti vicini nell’isolotto senza nome, sulla rotta dei pescherecci e delle chiatte che portano l’immondizia lontano.

Li guarda volare via, Mitzi, e le viene naturale fare “mé-mé”, quel verso un po’ stizzito che fanno i gatti quando vedono un pennuto spiegare le ali e alzarsi nell’aria.

Soprattutto  quegli antipatici di piccioni. Zampettano a terra, tu pensi che non sappiano volare, e poi PUF! fanno un saltino, sbatacchiano le ali e raggiungono una bifora, o un cornicione, lassù. E addio preda. Perché Mitzi è una gattina di Venezia, sestiere di San Marco per la precisione, e nonostante riesca ad arrivare molto in alto, sui tetti e le altane, ha un sogno: volare. Almeno per un’ora, sopra il mare, sopra le isole, per sentire l’aria veloce tra le vibrisse e guardare giù, quel grande pesce che si chiama Venezia.

 

Mitzi ha scoperto che la sua città ha quella forma  sbirciando la mappa di uno dei tanti turisti che di solito si fermano sotto il suo davanzale, in Corte Dei Risi.

Il tizio aveva dispiegato la cartina tracciando crocette con una matita e così lei lo aveva visto, quel pesce tondeggiante in mezzo all’azzurro.

E lo aveva sognato, nei suoi interminabili pisolini.

E ne aveva cercato i contorni: prima salendo tutta la scala del Bovolo, e poi passeggiando tra i camini lungo le Rive e le Fondamenta.

Si era anche arrampicata fino in cima al campanile di San Luca ma, una volta poggiate le zampine sui primi coppi del tetto, le era venuta paura. Erano arrivati i pompieri che, ormeggiata la bettolina nel canale, avevano allungato la scala meccanica e l’avevano portata a casa, tremante dentro un casco rosso.

Adesso, ogni volta che entrava in cucina vedeva il ritaglio del Gazzettino con il suo musetto tigrato in primo piano, in bella mostra sopra la mensola delle spezie.

Che vergogna!

 

Ma il sogno cresce nel suo cuoricino di gatto, i sonnellini e le fantasie non le bastano più. Deve provarci.

Mitzi si rende conto che le serve un buon consiglio e così, un dopopranzo, esce di casa e raggiunge Campo San Trovaso, dove la colonia di gatti randagi si scalda sotto il limpido sole invernale, in mezzo alle aiuole ingiallite e ai cartoccetti di avanzi.

Volare? si stupisce il vecchio gattone nerissimo, che chiamano Paròn, padrone.

“Che assurdità. Vedete – si rivolge alle decine di occhi e di code che lo circondano – questo è il risultato di abitare con gli umani. La televisione li rimbecillisce, e il gatto domestico li accompagna nella loro involuzione”.

“Non è così – risponde Mitzi, rispettosa– io vivo poco dentro casa. È che Venezia è un pesce, e io voglio guardarlo dall’alto”.

 

“Un pesce?” Paròn ridacchia.

Un soriano spelacchiato si avvicina: “La micetta ha ragione. C’è un disegno appeso nell’osteria. Stasera, quando lavano il pavimento, metti dentro la testa e lo vedrai”.

“Ma è la piccola del Gazzettino, quella che salì fin quasi in cima al campanile! Che tipetta intraprendente!” esclama una siamese dagli occhi verdi.

“La prova che i gatti non possono volare!” miagola il gattone nero, e si mette a sgranocchiare una seppiolina rinsecchita.

Mitzi sospira. Forse Paròn ha ragione: nemmeno nel glorioso Antico Egitto i gatti volavano.

Eh sì, dovrebbe accontentarsi dei piccoli sogni in cui rincorre lucertole e acchiappa moschini, tuffa il muso in ciotole di baccalà o si rotola in prati soffici e verdi, che non esistono a Venezia.

Un sogno tanto grande non può starci, dentro un piccolo gatto.

Infatti… ecco che quel grande sogno si allarga e allaga l’ultimo cerchio di sole, dove i randagi si sono riuniti, accucciandosi vicini.

Il vecchio Paròn sente che quel calore ha il profumo di un volo.

Fissa Mitzi con i suoi occhi gialli:  “Racconta il tuo sogno alla prima stella della sera, che al calar del sole appare sopra San Lazzaro e nel cielo del crepuscolo si sposta fin sulla cupola dorata di Maria degli Armeni, in San Marco. Quella è la stella della Fata Gattina, che da secoli esaudisce i nostri sogni. Lì la incontrerai. E’ un luogo nascosto, ma il percorso è pieno di umani. Non distrarti e non farti catturare”.

La Fata Gattina! Mitzi pensava fosse solo una favola. Però… credere a una favola e credere in un sogno, in fondo non è la stessa cosa?

“Grazie, Paròn-gatto” mormora.

 

Al ponte dell’Accademia salta sulla balaustra alzando il muso verso il cielo di cobalto. Qualcuno le fa una foto. Vede la stella e, scansando una carezza, corre via, lungo il Canal Grande.

Nel sottoportego degli Armeni trova i mille odori della città: pipì di barboncino, sardina schiacciata, cioccolatino sciolto, cacca di pantegana, mandarino marcio, spritz, pipì di bambino (maleducato).

Il chiarore della stella proietta un’ombra d’argento sul muro della chiesa.

Fata Gattina è un certosino splendente con occhi d’ acquamarina e baffi di diamante.

“È proprio un bel sogno, Mitzi. Fammi compagnia fino all’aurora: volerai con me nel mio viaggio di ritorno”.

 

Paròn-gatto fiuta l’aria fredda dell’alba. Presto verrà la neve, pensa, e si gratta dietro l’orecchio. Alza gli occhi: Fata Gattina sta tornando a casa, e non è sola.

Sorride, lisciandosi la coda: la micia del Bovolo ce l’ha fatta. Lassù nel cielo sembra un palloncino a forma di tigre, sfuggito a un ambulante.

 

Sì, Mitzi vola, con il vento nella pelliccia e gli occhi fissi sul grande pesce.

Vola sui giardini segreti, sulle corti nascoste, sui banchi del mercato.

Respira l’aroma dei primi caffè e infine si posa – come un gabbiano! – su una bricola.

Trema di fusa e di felicità.

Nel suo cuore, il calore di una stella.

RB – UNA BELLA FIORITURA – ERIKA ADALE

UNA BELLA FIORITURA

Di ERIKA ADALE

 

Mi chiamo Martino e faccio il giardiniere.

In paese ci sono molte ville con grandi parchi, per lo più abitate solo d’estate da ricchi milanesi in villeggiatura.Le tengo d’occhio durante l’inverno, poto gli alberi, toso i prati, raccolgo le foglie.

Talvolta mi permetto qualche consiglio: le azalee starebbero meglio sotto il castagno, gli ulivi da queste parti crescono male… ma non sempre mi danno retta.

Vivo con mia madre, che ormai ha più di ottant’anni. La domenica mattina, dopo la messa, l’ accompagno al cimitero: spazza la tomba di papà, si sofferma di fronte alle immagini di vecchie amiche che sorridono da foto color seppia.  Mi racconta antichi pettegolezzi come fossero notizie del giorno.

“Guarda la tomba di Felicita, che meraviglia” mi dice e indica con il dito ossutouna lapide coperta di rose gialle. Annuisco e sfioro una sfolgorante corolla appena sbocciata: così belle crescono solo nel roseto del professor Speroni.

 

Felicita l’ho conosciuta anch’io, era una povera donna che viveva sola in una soffitta cadente nel centro al paese. La ricordo uscire tutta scarmigliata sulla via e chiamare a raccolta una turba di gatti arruffati e magri come lei: ”Mici, mici!” Lasciava un po’ di latte e crocchette, poi distribuiva carezze sulle schiene ispide e pulciose.

Due anni fa, verso febbraio, i gatti scomparvero all’improvviso. Felicita si affacciò con la tazza del latte in mano, gridò “Mici, mici!”

Non accorse nessuno. All’inizio rimase lì perplessa, nella sua bisunta vestaglia a fiori, i capelli bianchi svolazzanti. Poi ci riprovò: “ Mici, mici, mici!”

Chiamò ancora, con la voce sempre più stridula, “Mici, mici, mici, mici!”

Nessun miagolio festoso, nessun allegro zampettare.

Le tremarono le mani, il latte traboccò sull’asfalto. Felicita singhiozzava, un paio di donne caritatevoli la raggiunsero e la riaccompagnarono verso il portone di casa. “Sta tranquilla, Felicita, in fondo erano solo gatti…”

Forse il Comune aveva fatto pulizia, quelle bestiacce cominciavano a essere troppe.

La povera Felìcita si chiuse disperata nella sua soffitta senza più neppure affacciarsi al lucernario. Un mese dopo le vicine, preoccupate, fecero forzare la porta. La trovarono stecchita sullo stinto divanetto su cui dormiva, la casa piena di scatolette di cibo per gatti.

Felicita era molto anziana, non si era mai curata un granché della propria salute ma si diceva che le si fosse spezzato il cuore.

 

Il parco del professor Speroni è il più bel giardino della paese. Talvolta gli do una mano a rivoltar zolle e raccogliere foglie, nulla di più. Il professore insegnava botanica, non sono certo io a spiegargli quanto si bagna una camelia o come rinvasare le begonie.

E’ un uomo pallido, con l’espressione nauseata di chi non è riuscito a inghiottire del tutto un boccone. Si dedica alle sue piante con l’amore che basterebbe a crescere un figlio. Forse perché non ne ha, forse perché ha una moglie fredda come un pesce. Pare che la signora Speroni, stanca della vita di provincia e dell’indifferenza del marito, sia tornata a Milano. In paese nessuno la vede più.

 

La primavera scorsa la fioritura della villa fu ancora  più eccezionale del solito. Il roseto era un fitto splendore di violetti, gialli, rossi carnosi e luminosi.

La curiosità professionale mi spinse a dare un’occhiata da vicino. Rivoltai con la vanga una zolla di terreno per capire quale concime avesse permesso un simile risultato. Sobbalzai dal disgusto: sulla punta della vanga si era conficcato il cranio di un piccolo animale. Spostai un po’ di terriccio e mi accorsi che c’erano altre ossa, a centinaia. Nauseato, gettai la vanga e me ne andai.

Sull’ingresso incontrai Antonio, il tuttofare, che stava dando una mano di antiruggine al cancello .

“Trovati i gatti, eh?” mi disse senza alzare neppure gli occhi dal pennello.

Antonio non è un cattivo diavolo, ha solo un gran bisogno di soldi: accetta qualunque lavoro purchépagato. Mi raccontò che, quando la signora Anna gli diede in mano cento euro per far sparire tutti i gatti di Felìcita, fece solo una domanda: “Dove li devo mettere, dopo?”

La signora, con tono distratto, gli rispose che la terra del roseto di suo marito era morbida e umida.

 

La mamma osserva la foto sulla lapide di Felicita. Da giovane era bellissima, piaceva a tutti i ragazzi del posto. Usciva con il giovane Speroni, che d’estate raccoglieva campioni di piante per la sua tesi sulla flora lacustre. Erano una coppia bizzarra, lui colto e svagato, sempre intento a collezionare foglie, lei quasi analfabeta, presa a curare cani randagi, gatti spelacchiati, merli caduti dal nido. Ci fu anche una proposta di matrimonio, ma Felicita rispose no, stava bene così, libera come gli animali che amava. I genitori di Speroni tirarono un respiro di sollievo all’idea di aver evitato una nuora così poco presentabile in società. Spedirono il giovane al convitto di Milano, sperando che dimenticasse e perdesse quell’espressione sofferente che lo faceva sembrare in preda al mal di stomaco. Un anno dopo il ragazzo tornò in paese laureato e fidanzato con un’elegante signorina milanese conosciuta a un concerto alla Scala. L’espressione disgustata non lo aveva abbandonato.

 

Il professore arriva con passo stanco e ci saluta con un cenno. Si china sulla tomba di Felicita, raccoglie il mazzo di rose gialle e lo getta via. Spolvera delicatamente la lapide con il fazzoletto e depone dei boccioli rosati appena colti. Per un attimo, per la prima volta, mi è sembrato di vederlo sorridere.

 

Non credo che andrò mai più a scavare nel suo roseto.

RB – DIRITTO E ROVESCIO – CLAUDIO FERRATA

DIRITTO E ROVESCIO

Di CLAUDIO FERRATA

 

Un giorno le cose decisero di andare al rovescio. D’altronde c’è un detto, Non sempre le cose vanno dritte, per cui nessuna meraviglia che un giorno dal detto si passasse al fatto; il guaio è che non esiste né mai esisterà un criterio, a parte quello dell’abitudine, per stabilire in cosa consista il dritto e in cosa il rovescio. Discorso ovviamente valido per gli opposti in generale, per destro e sinistro, nero e bianco, nano e gigante, grasso e magro e via dicendo. Insomma, se agli albori della civiltà l’uomo avesse deciso di chiamare notte il giorno e viceversa, destro il sinistro e viceversa, gigante il nano e viceversa, nessuno avrebbe trovato da ridire. Diciamo allora che un giorno le cose decisero di andare nel verso contrario a quello fin’allora seguito. Il fiume anziché a mare si gettò a monte, il monte anziché in alto sviluppò in basso, il sole anziché a occidente tramontò a oriente, la luna anziché di notte spuntò di giorno, giorno e notte si scambiarono di posto, idem luna e sole che per un attimo s’erano ritrovati al posto di prima, gli alberi misero radici in cielo e rami in terra, cielo e terra invertirono la posizione, idem radici e rami per non tornare da dove erano venuti. Chiaro come questo stato di cose si ripercuotesse sull’uomo che, privato delle certezze millenarie, – una su tutte il funzionamento delle automobili che di punto in bianco presero ad avanzare in retromarcia, dettaglio trascurabile quando ci si prese l’abitudine, un po’ meno quando anche le ruote decisero di girare in senso inverso – non seppe più a che santo votarsi. Ci fu, sì, il tentativo da parte dei Capi di Stato di scambiarsi un parere su come fronteggiare l’anomalia ma poiché le parole marciavano al contrario, i loro discorsi, già ermetici, divennero incomprensibili. Il che rese ognuno sospettoso dell’altro al punto che, paventando chissà quale congiura tendente alla destabilizzazione del proprio regime, ogni Paese decise di fare guerra all’altro. E guerra fu, anche se le bombe lanciate da A verso B tornavano al mittente, idem quelle da B verso C, da C verso D e così via in uno striga striga globale di cui non si capì il motivo allora né si capì poi. L’unica cosa certa fu l’enorme sospiro di sollievo che cacciò il mondo una volta liberatosi dell’uomo. Un sospiro capace di assorbire mari, fiumi, monti, radici, rami, sole, luna, insomma le cose dell’universo creato, e di restituirle un po’ alla volta, delicatamente, al loro alveo naturale. Da cui ripresero ad andare dritte, o meglio, nella direzione da loro giudicata dritta.

RB – DISCORSI DA GIOVANI – BENEDETTA ANNICHIARICO

DISCORSI DA GIOVANI

Di BENEDETTA ANNICHIARICO

 

“Ehi?”

“Ehi cosa?”

“No dico… Ehi?”

“Eh sì, ehi a te”

“Ecco”

“Allora?”

“Niente… Tu?”

“Bene, bene… Ne vuoi?”

“Di che?”

“Di questo”

“Di questo cosa?”

“Di questo!”

“Ah, no grazie”

“Allora, lei?”

“Mah bene… e Lui?”

“Bene bene…”

“Il telefono”

“Cosa?”

“Il telefono. Squilla”

“Oh. Laila! é per te! é Rebecca”

“Eccomi. Pronto?”

“Ue”

“Ehi”

“Beh?”

“Bah…”

“Nah?!”

“Mh…”

“Ah…”

“E?”

“Ah beh…”

 

“Ah La mia Laila… Tu li conosci i discorsi da giovani?”

“Nah… Boh…”

“Ah… Per esempio… che vuol dire ‘bella lì’?”

“Boh…”

“Ah…”

“Che si fa?”

“Buh…”

“Coca?”

“Coca”

“Tiè”

“Eh?”

“No dico, tiè”

“Ah, eh”

“Ah è stato un piacere parlare con te sei davvero una persona interessante e spero di reincontrarti presto amico”

“… Mh”

RB – CURA PALLIATIVA – ANDREA CADONI

CURA PALLIATIVA

Di ANDREA CADONI

 

Palliativo agg. e sm. Che ricopre, che maschera o attenua un male senza risolverlo. Rimedio provvisorio. Per mascherare la crisi di governo ricorse ad alcuni palliativi. | Cura dei sintomi di una malattia che non ne rimuove tuttavia le cause. L’analgesico è solo un palliativo.

 

Michele Mainardi continuava a pensare alla definizione che aveva letto sul dizionario di lingua italiana, poco prima di lasciare l’ufficio.

Aveva fissato l’orario della visita ben oltre la chiusura dell’ambulatorio. Non posso certo lasciare il timone dell’azienda nel bel mezzo della giornata lavorativa. No, dottoressa, neppure per un’ora. Lei forse non sa che ho mille e duecento dipendenti, sotto di me. Aveva ringhiato al telefono.

Solcava i corridoi deserti nella penombra delle luci al neon accese solo per metà. Il caos, che di giorno invadeva le corsie che collegavano i reparti, aveva lasciato il passo all’eco delle suole delle scarpe perfettamente lucide, nel silenzio assoluto di chi si prepara al riposo.

Ti fideresti mai di una persona con le scarpe in disordine? ripeteva spesso, giustificando così i soldi spesi ogni mese per la fornitura di costose calzature artigianali.

Le parole del Devoto-Oli continuavano a ronzare nella mente.

– Chi ha trovato quel nome non ha mai visto un cancro in faccia. – Brontolò sommessamente cercando con la mano il pacchetto di Muratti Ambassador nella tasca del cappotto griffato.

Signor Mainardi, da adesso la prenderemo in carico noi. Aveva detto la giovane dottoressa, accompagnando le parole con un vago sorriso suadente.

Branco di falliti. Vogliono convincermi ad arrendermi, io che non mollo mai. – Ruggì dentro di sé stringendosi nel bavero rialzato del cappotto. Fuori dai corridoi dell’ospedale, l’aria di dicembre pungeva gli zigomi emaciati. Raggiunse il piazzale del parcheggio deserto, dove il suo Cayenne troneggiava nella totale solitudine.

– Mi hanno sospeso le terapia sperimentali. Il suo fegato non reggerebbe ulteriori cicli. Che ne sanno loro del mio fegato, non c’hanno mai capito un cazzo.

 

La pelle morbida del sedile lo avvolse delicatamente, mentre l’aria calda iniziava a filtrare nell’abitacolo.

Accompagnare alla morte. Ma vaffanculo, mi stanno dicendo che non sanno più cosa fare di me.

Michele Mainardi guidava spingendo nervosamente tutti i cavalli del suo suv, che sobbalzava ad ogni scatto del cambio automatico. Lasciò la tangenziale, uscita Villa de’ Medici, e imbocco il viale di cipressi che portava al complesso residenziale dove abitava.

Aveva bisogno di bere qualcosa al Millenium Bar, il suo rifugio serale, prima di chiudersi nel silenzio asettico e perfettamente climatizzato del suo superattico.

Mise la freccia e imboccò il vialetto che portava al locale.

CHIUSO PER PREPARATIVI. Bestemmiò davanti al cartello attaccato con il nastro adesivo alla porta di cristallo. Mancavano due giorni al veglione di Natale.

Anche Millenium m’ha piantato in asso. – Pensò.

Aveva voglia di urlare, di picchiare qualcuno, se ne avesse avuto ancora la forza.

Accese una Muratti e di colpo arrivò l’illuminazione. Faccio causa contro l’azienda ospedaliera. E’ colpa di quella razza di incompententi, se mi sono ridotto così. Anzi, ne faccio due, un’azione legale e una campagna mediatica, perché non si chiama un reparto in quel modo.

L’idea di piantare un casino colossale verso la direzione ospedaliera lo caricò di nuova energia. Doveva tornare a lottare.

Ogni mattina mi sveglio pensando che ho mille e duecento dipendenti sotto di me, anche se non ne conosco neppure uno di persona. Mio padre era un operaio, ho costruito il mio impero dal niente e, se sono arrivato fino a qua, è perché non mollo mai.

Doveva mettere subito in moto la cosa. Gettò la cicca, sfilò il Blackberry dalla tasca interna del cappotto e selezionò il numero della segretaria personale, l’unica persona con la quale si era lasciato andare a qualche confidenza privata.

– …vodafone messaggio gratuito…

Merda.

L’immagine del quadretto familiare impegnato nella cena prenatalizia provocò un rigurgito acido nell’esofago di Michele Mainardi.

Due mesi di vita, forse tre.

Alla fine era riuscito a strappare una data alla dottoressa.

Lasciò il Cayenne nel parcheggio del Millenium, accese una Muratti, sbuffò una nuvola grigia di fumo e si incamminò a piedi attraverso i due isolati che lo separavano dal suo condominio.

Si accorse che per la terza volta in meno di un’ora si sentiva solo.

Pensò alle cose che aveva ottenuto dalla vita, ai mille e duecento dipendenti sotto di sé, alla collezione di armi antiche che custodiva gelosamente nel salone del superattico.

Pensò agli anni passati a circondarsi di persone, senza mai permettere a nessuno di avvicinarsi veramente.

Pensò alla vita divorata, all’agenda costantemente stivata di impegni per non avere mai un minuto libero. Per non sentire quel vuoto che adesso stringeva le viscere. Una cura palliativa.

Una fine pioggia gelata iniziò a scendere dal cielo nero.