RL – COME LA TUA MOTO – ANNA BRUNI

COME LA TUA MOTO

Di ANNA BRUNI

Nel tuo piccolo, ti ho sempre visto uguale alla tua moto. Aggressivo, irriducibile, battagliero, intenso, meraviglioso. Una Guzzi 650, rossa e bianca. Quella che usavano i poliziotti americani, con borse e marmitte originali. Niente a che spartire con le BMW che montano adesso gli agenti di qui. Mi ci hai fatto salire che non avevo ancora otto anni, e la mamma non ne voleva sapere perché era troppo pericoloso. Ma tu dicevi che le gemelle dovevano imparare a non avere paura di niente. Che dovevano essere come i maschi. E i maschi la moto la sanno guidare, eccome.

Non ci sono mai riuscita a darti quella soddisfazione, sono sempre stata troppo imbranata per cambiare le marce con il pedalino e troppo poco alta per riuscire a tenere in piedi quella tua moto pesante. Però quando eri tu che mi portavi, allora era tutta un’altra cosa. Quello era il nostro momento. Quello in cui smettevi i panni del padre silenzioso e distante e diventavi quanto di meglio una bambina potesse sognare. Non facevamo giri lunghi, sempre per via della mamma che ci aspettava a casa con l’ansia: su per il rettilineo del cimitero, quello che si era allagato durante l’alluvione del 1970, quando la gente era salita sopra gli angeli di marmo per non farsi travolgere dall’acqua. Non so come riuscivi anche a parlarmi, guidando a quella velocità. Mi hai sempre raccontato un sacco di cose sulla tua Guzzi, forse le uniche che ancora oggi so di te. Di quando da ragazzo avevi fatto il muratore per pagarti gli studi e di come avevi imparato ad arrampicarti in cima ai tetti anche se soffrivi di vertigini. Ma quel lavoro ti serviva e quindi ti sei arrampicato e basta. Di come gli altri bambini ti chiamavano bastardo, perché tuo padre ti aveva abbandonato e tua mamma era morta che non avevi neppure cinque anni. Di quando hai imparato a menarli quei ragazzini e allora non ne avevi più paura, anzi erano loro che se la davano a gambe quando ti vedevano. Di quando al campetto di calcio ti avevano messo a fare il portiere perché eri il più alto, e io ero sicura che, anche se avessi giocato da centravanti, saresti stato comunque il più bravo di tutti.

In quei momenti pensavo che avrei voluto vivere sempre così, come facevi tu, senza quella paura che mi rodeva dentro fin da quando ero piccolissima. Paura di tutto. Della gente, della nonna Linda, dell’insegnante di Educazione Artistica e di quella di Ginnastica, dei compagni di scuola, della cuoca della mensa, del sacrestano, dei ragazzi con i motorini che fumavano le sigarette: paura di essere brutta, grassa, insignificante, disgustosa, inesistente, o più semplicemente cattiva. Soprattutto paura di te, grande e grosso come eri. Come quando mi davi la mano sulla spiaggia e mi bruciavano i piedi e non riuscivo a camminare veloce come te e allora diventavo tutta rossa e mi mettevo a fissare la sabbia.

Soltanto sulla tua Guzzi 650, soltanto lì non avevo paura.

Ci fermavamo al distributore, dal tuo amico Gino, per fare il pieno. Lui beveva parecchio e picchiava la moglie con la cinghia, però tu dicevi che tutto sommato era un bravo cristo.

Tu la moto la volevi solo a benzina, il gasolio era pergente “senza palle”.

E Gino ti dava ragione e raccontava una delle sue barzellette sporche che io non capivo, mentre tu mi soffiavi il naso e mi chiedevi se volevo fare la pipì. Ma io, anche quando ne avevo voglia, ti dicevo sempre di no. Perché non volevo perdere tempo, volevo stare lì con te e con Gino il più a lungo possibile. Per qualche ora volevo essere la tua gemella preferita. Una volta mi hai portato perfino in autostrada con la Guzzi, dicevi che prima o poi avrei dovuto provarla quell’emozione, e subito dopo hai imboccato il casello di Arenzano. Ci siamo ritrovati all’improvviso su una pista a tre corsie, era come essere in una specie di sogno.

Poi arrivava il momento di tornare a casa e io ritornavo a essere la bambina solitaria e introversa di sempre, e tu il padre lontano e severo che mi sgridava e mi picchiava qualche volta, anche se mai con la cinghia.

Poi un giorno sei caduto. Con noi non ti era mai capitato. Ma quando eri da solo tu andavi davvero veloce – una velocità così pazzesca che io non sono mai riuscita neppure a immaginarla – ed è finita che sei scivolato su una pozzanghera d’olio mentre eri in piega con la Guzzi. Dicesti che eri arcistufo di quella maledetta moto che ti faceva venire il mal di gola e per la quale rischiavi ogni giorno la vita. Tu non hai mai avuto paura di niente, ma di morire e di lasciare sole le gemelle e tua moglie, di questo sì. E allora l’hai mollata per sempre la tua Guzzi e con lei hai mollato anche me, le mie paure, il mio sentirmi uguale al niente.

L’ho capita subito questa cosa non appena ti ho visto ricoprire la moto con un telone giallo, dopo averla sistemata sul fondo del garage.

 

***

Il tempo è passato e in qualche modo abbiamo fatto pace. Sono scappata via, dalla tua città, dal tuo studio di dentista, ma è come se ti fossi rimasta attaccata dietro per tutto il tempo, incollata a quel sellino che separava le due borse originali americane. Ci ho provato mille volte a staccarmi da quella sella ma ho sempre avuto paura, anche di quello. Quando decidevo di tornare a casa le cose andavano un po’ meglio. Da allora ci siamo parlati un po’ di più e anche se lo so che non sarò mai la tua gemella preferita, adesso ti sento più vicino. Sei diventato vecchio e questo ha fatto bene a tutte e due. Parli sempre poco, ma parli meglio di prima: sei diventato più sincero, soprattutto con te stesso.

L’ho vista sai la tua Guzzi? L’altro giorno sono andata a recuperare dei libri in garage e mi è saltata all’occhio la sua sagoma, nell’angolo buio in fondo al garage. L’hai sempre tenuta lì, sotto quel telone giallo che ne ha preservato gli ingranaggi nel tempo. Ho tirato su il telone e l’ho guardata. Ti ho riconosciuto ancora una volta: a parte un po’ di ruggine, è rimasta pressoché intatta quella sua grinta che tanto ti assomiglia, quella sua eleganza selvatica che con gli anni è diventata ancora di più di valore.

Certe cose non passano mai di moda, neanche per me che pure ti ho odiato tanto.

 

***

“La malattia è una brutta bestia…”, mi dici, “siamo stati sfortunati”, mi dici.

Ma non sono sicura che sia veramente così. Siamo in mezzo ai tubicini e alle flebo e io lo so che tu hai paura di questo posto. Ma la vita è fatta anche di cose così, non stiamoci a pensare troppo. Io invece, in un posto del genere non mi ci trovo male. Gli ospedali mi hanno sempre tranquillizzata, dai tempi in cui ci tolsero le tonsille a me e a Francesca, mi ci sento protetta, come se qui non potesse succedermi niente di male.

“Non ti devi preoccupare”, ti dico.

Ma non mi stai ascoltando, lo vedo che sei triste.

Mi chiedi scusa per quello che mi hai fatto, per non essere stato un buon padre. Non ti preoccupare papà, non c’è bisogno di parlare di queste cose adesso, soltanto perché siamo alle corde. Mi dà fastidio vederti così fragile, con il magone che cerchi di nascondere. Non devi chiedere il mio perdono papà, è tutto niente, è tutto passato. Vedi di non piangere. Non ti ricordi come ti arrabbiavi quando io e Francesca lo facevamo? Dicevi che le tue gemelle non dovevano mai piangere, che era una cosa da “femmine lagnose”.

Va tutto bene, papà.

Mi accarezzi il braccio e mi fai male, per via dell’ago, ma non mi scosto perché mi piace sentirti così vicino. Mi dici di non preoccuparmi per i capelli, tanto ricrescono velocemente e magari anche più di prima. Ho la faccia pallida papà, allora guarda soltanto i miei occhi, concentrati su quelli. Così capisci che sono contenta, che non mi importa niente di ciò he mi sta succedendo. È andata come doveva andare, io non ho paura di queste cose.

Ti ricordi il vento papà? Anche con il casco lo potevi sentire, e più veloce andavi e più lo sentivamo. Ti ricordi Gino e le sue barzellette sporche? Ti ricordi la tua Guzzi, papà?

“Quel vecchio catorcio arrugginito”, mi dici.

Non la devi insultare la tua moto, sai che non voglio.

Proprio in questo momento me la sto immaginando, la vedo mentre ti aspetta sotto a quel telone giallo, non ha perso le speranze che un giorno o l’altro tu vada a recuperarla. Ha ancora un’ottima grinta e, anche se la carena è ammaccata sulla sinistra – per via di quella volta che siete scivolati sull’olio –, sarebbe pronta a ripartire anche subito, se tu lo volessi. Ha il motore buono, di quelli di una volta, un motore italiano che adesso non sanno fare più.

“Potresti tirarla fuori e farti un giro”, ti dico.

Ma tu non ne vuoi sapere. Guarda che non è una brutta idea papà.

Gino probabilmente non ci sarà più, ma ci saranno ancora gli angeli di marmo che sovrastano il cimitero e che una volta hanno salvato la vita a tanta gente. Ci sarà ancora l’autostrada a tre corsie e anche il vento, soprattutto il vento di quei giorni di tramontana che spazza via le nuvole e allora ritorna il tempo buono per andare in moto. Se poi ti girerai un attimo, mentre guidi sul rettilineo in seconda corsia, potrai vedermi ancora attaccata al sellino, le gambe grassocce, che sembrano due salami, avvolte nei jeans della Wrangler, le mie braccia strette alle tue come se si trattasse di vita o di morte.

Via così papà, salutami ed esci da questo postaccio. Corri in garage, solleva il telone, metti in moto la tua Guzzi, parti senza pensarci e fammi vedere ancora una volta di che cosa sei capace. Adesso riuscirò a starti dietro anche meglio di prima, vedrai che spettacolo, adesso che non c’è più niente che possa farmi paura.

7 pensieri su “RL – COME LA TUA MOTO – ANNA BRUNI

  1. Marino ha detto:

    Ero presente alla lettura del tuo racconto, veramente toccante.
    Voglio pensare che tu sia (nel racconto) l’altra gemella, quella brava a trascrivere i pensieri di entrambre.

  2. Massimiliano Di Lorenzo ha detto:

    Come la tua moto è a mio parere l’esempio del racconto perfetto. Viscerale eppure essenziale, chirurgico nella esposizione degli eventi, centellinato alla perfezione. Ogni parola, ogni concetto è lì dove dovrebbe essere. È semplice e potente. Pur trattando temi inevitabilmente costanti e ripetitivi nel mondo narrativo ( la nostalgia, la malattia, l’inadeguatezza di se stessi ) l’Autrice riesce a intessere una narrazione ricca di suspense e impregna attraverso un sapiente uso della esposizione degli eventi l’intero racconto ineluttabilità di una fine dolorosa che seppur magistralmente nascosta dalla capacità di spiazzare il lettore giocando sulla prevedibilità di un padre anziano e ” prevedibilmente vicino alla fine” ribalta gli eventi e ci mostra con un finale forte capace di reggere “la promessa letteraria” del finale “non prevedibile” e svela con una intensa profondità’ quello che è lo spirito della “gemella narratrice” nell’affrontare la certa morte con maggiore serenità rispetto alla spaventosa imprevedibilità della vita. Potrei parlare ore di questo racconto ma per adesso mi fermo qua. Ho avuto il piacere di complimentarmi personalmente con l’autrice e l’ho fatto con la più sincera ammirazione che si deve a chi sa far bene le cose. Se fossi un editore non esiterei un attimo a metterla nel mio “carniere” di autori molto promettenti. Avrei voluto dirgliele di persona queste cose ma son dovuto correr via in anticipo. Se mi leggi Anna un caro saluto e ancora complimenti.

  3. ALESSANDRO DETTORI ha detto:

    Riesco a dirti solo grazie, cara Anna. Mi hai fatto sentire in un angolo di quella camera, a guardarvi ed a pensare. Ancora grazie!

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