RB – UNA BELLA FIORITURA – ERIKA ADALE

UNA BELLA FIORITURA

Di ERIKA ADALE

 

Mi chiamo Martino e faccio il giardiniere.

In paese ci sono molte ville con grandi parchi, per lo più abitate solo d’estate da ricchi milanesi in villeggiatura.Le tengo d’occhio durante l’inverno, poto gli alberi, toso i prati, raccolgo le foglie.

Talvolta mi permetto qualche consiglio: le azalee starebbero meglio sotto il castagno, gli ulivi da queste parti crescono male… ma non sempre mi danno retta.

Vivo con mia madre, che ormai ha più di ottant’anni. La domenica mattina, dopo la messa, l’ accompagno al cimitero: spazza la tomba di papà, si sofferma di fronte alle immagini di vecchie amiche che sorridono da foto color seppia.  Mi racconta antichi pettegolezzi come fossero notizie del giorno.

“Guarda la tomba di Felicita, che meraviglia” mi dice e indica con il dito ossutouna lapide coperta di rose gialle. Annuisco e sfioro una sfolgorante corolla appena sbocciata: così belle crescono solo nel roseto del professor Speroni.

 

Felicita l’ho conosciuta anch’io, era una povera donna che viveva sola in una soffitta cadente nel centro al paese. La ricordo uscire tutta scarmigliata sulla via e chiamare a raccolta una turba di gatti arruffati e magri come lei: ”Mici, mici!” Lasciava un po’ di latte e crocchette, poi distribuiva carezze sulle schiene ispide e pulciose.

Due anni fa, verso febbraio, i gatti scomparvero all’improvviso. Felicita si affacciò con la tazza del latte in mano, gridò “Mici, mici!”

Non accorse nessuno. All’inizio rimase lì perplessa, nella sua bisunta vestaglia a fiori, i capelli bianchi svolazzanti. Poi ci riprovò: “ Mici, mici, mici!”

Chiamò ancora, con la voce sempre più stridula, “Mici, mici, mici, mici!”

Nessun miagolio festoso, nessun allegro zampettare.

Le tremarono le mani, il latte traboccò sull’asfalto. Felicita singhiozzava, un paio di donne caritatevoli la raggiunsero e la riaccompagnarono verso il portone di casa. “Sta tranquilla, Felicita, in fondo erano solo gatti…”

Forse il Comune aveva fatto pulizia, quelle bestiacce cominciavano a essere troppe.

La povera Felìcita si chiuse disperata nella sua soffitta senza più neppure affacciarsi al lucernario. Un mese dopo le vicine, preoccupate, fecero forzare la porta. La trovarono stecchita sullo stinto divanetto su cui dormiva, la casa piena di scatolette di cibo per gatti.

Felicita era molto anziana, non si era mai curata un granché della propria salute ma si diceva che le si fosse spezzato il cuore.

 

Il parco del professor Speroni è il più bel giardino della paese. Talvolta gli do una mano a rivoltar zolle e raccogliere foglie, nulla di più. Il professore insegnava botanica, non sono certo io a spiegargli quanto si bagna una camelia o come rinvasare le begonie.

E’ un uomo pallido, con l’espressione nauseata di chi non è riuscito a inghiottire del tutto un boccone. Si dedica alle sue piante con l’amore che basterebbe a crescere un figlio. Forse perché non ne ha, forse perché ha una moglie fredda come un pesce. Pare che la signora Speroni, stanca della vita di provincia e dell’indifferenza del marito, sia tornata a Milano. In paese nessuno la vede più.

 

La primavera scorsa la fioritura della villa fu ancora  più eccezionale del solito. Il roseto era un fitto splendore di violetti, gialli, rossi carnosi e luminosi.

La curiosità professionale mi spinse a dare un’occhiata da vicino. Rivoltai con la vanga una zolla di terreno per capire quale concime avesse permesso un simile risultato. Sobbalzai dal disgusto: sulla punta della vanga si era conficcato il cranio di un piccolo animale. Spostai un po’ di terriccio e mi accorsi che c’erano altre ossa, a centinaia. Nauseato, gettai la vanga e me ne andai.

Sull’ingresso incontrai Antonio, il tuttofare, che stava dando una mano di antiruggine al cancello .

“Trovati i gatti, eh?” mi disse senza alzare neppure gli occhi dal pennello.

Antonio non è un cattivo diavolo, ha solo un gran bisogno di soldi: accetta qualunque lavoro purchépagato. Mi raccontò che, quando la signora Anna gli diede in mano cento euro per far sparire tutti i gatti di Felìcita, fece solo una domanda: “Dove li devo mettere, dopo?”

La signora, con tono distratto, gli rispose che la terra del roseto di suo marito era morbida e umida.

 

La mamma osserva la foto sulla lapide di Felicita. Da giovane era bellissima, piaceva a tutti i ragazzi del posto. Usciva con il giovane Speroni, che d’estate raccoglieva campioni di piante per la sua tesi sulla flora lacustre. Erano una coppia bizzarra, lui colto e svagato, sempre intento a collezionare foglie, lei quasi analfabeta, presa a curare cani randagi, gatti spelacchiati, merli caduti dal nido. Ci fu anche una proposta di matrimonio, ma Felicita rispose no, stava bene così, libera come gli animali che amava. I genitori di Speroni tirarono un respiro di sollievo all’idea di aver evitato una nuora così poco presentabile in società. Spedirono il giovane al convitto di Milano, sperando che dimenticasse e perdesse quell’espressione sofferente che lo faceva sembrare in preda al mal di stomaco. Un anno dopo il ragazzo tornò in paese laureato e fidanzato con un’elegante signorina milanese conosciuta a un concerto alla Scala. L’espressione disgustata non lo aveva abbandonato.

 

Il professore arriva con passo stanco e ci saluta con un cenno. Si china sulla tomba di Felicita, raccoglie il mazzo di rose gialle e lo getta via. Spolvera delicatamente la lapide con il fazzoletto e depone dei boccioli rosati appena colti. Per un attimo, per la prima volta, mi è sembrato di vederlo sorridere.

 

Non credo che andrò mai più a scavare nel suo roseto.

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