RB – CURA PALLIATIVA – ANDREA CADONI

CURA PALLIATIVA

Di ANDREA CADONI

 

Palliativo agg. e sm. Che ricopre, che maschera o attenua un male senza risolverlo. Rimedio provvisorio. Per mascherare la crisi di governo ricorse ad alcuni palliativi. | Cura dei sintomi di una malattia che non ne rimuove tuttavia le cause. L’analgesico è solo un palliativo.

 

Michele Mainardi continuava a pensare alla definizione che aveva letto sul dizionario di lingua italiana, poco prima di lasciare l’ufficio.

Aveva fissato l’orario della visita ben oltre la chiusura dell’ambulatorio. Non posso certo lasciare il timone dell’azienda nel bel mezzo della giornata lavorativa. No, dottoressa, neppure per un’ora. Lei forse non sa che ho mille e duecento dipendenti, sotto di me. Aveva ringhiato al telefono.

Solcava i corridoi deserti nella penombra delle luci al neon accese solo per metà. Il caos, che di giorno invadeva le corsie che collegavano i reparti, aveva lasciato il passo all’eco delle suole delle scarpe perfettamente lucide, nel silenzio assoluto di chi si prepara al riposo.

Ti fideresti mai di una persona con le scarpe in disordine? ripeteva spesso, giustificando così i soldi spesi ogni mese per la fornitura di costose calzature artigianali.

Le parole del Devoto-Oli continuavano a ronzare nella mente.

– Chi ha trovato quel nome non ha mai visto un cancro in faccia. – Brontolò sommessamente cercando con la mano il pacchetto di Muratti Ambassador nella tasca del cappotto griffato.

Signor Mainardi, da adesso la prenderemo in carico noi. Aveva detto la giovane dottoressa, accompagnando le parole con un vago sorriso suadente.

Branco di falliti. Vogliono convincermi ad arrendermi, io che non mollo mai. – Ruggì dentro di sé stringendosi nel bavero rialzato del cappotto. Fuori dai corridoi dell’ospedale, l’aria di dicembre pungeva gli zigomi emaciati. Raggiunse il piazzale del parcheggio deserto, dove il suo Cayenne troneggiava nella totale solitudine.

– Mi hanno sospeso le terapia sperimentali. Il suo fegato non reggerebbe ulteriori cicli. Che ne sanno loro del mio fegato, non c’hanno mai capito un cazzo.

 

La pelle morbida del sedile lo avvolse delicatamente, mentre l’aria calda iniziava a filtrare nell’abitacolo.

Accompagnare alla morte. Ma vaffanculo, mi stanno dicendo che non sanno più cosa fare di me.

Michele Mainardi guidava spingendo nervosamente tutti i cavalli del suo suv, che sobbalzava ad ogni scatto del cambio automatico. Lasciò la tangenziale, uscita Villa de’ Medici, e imbocco il viale di cipressi che portava al complesso residenziale dove abitava.

Aveva bisogno di bere qualcosa al Millenium Bar, il suo rifugio serale, prima di chiudersi nel silenzio asettico e perfettamente climatizzato del suo superattico.

Mise la freccia e imboccò il vialetto che portava al locale.

CHIUSO PER PREPARATIVI. Bestemmiò davanti al cartello attaccato con il nastro adesivo alla porta di cristallo. Mancavano due giorni al veglione di Natale.

Anche Millenium m’ha piantato in asso. – Pensò.

Aveva voglia di urlare, di picchiare qualcuno, se ne avesse avuto ancora la forza.

Accese una Muratti e di colpo arrivò l’illuminazione. Faccio causa contro l’azienda ospedaliera. E’ colpa di quella razza di incompententi, se mi sono ridotto così. Anzi, ne faccio due, un’azione legale e una campagna mediatica, perché non si chiama un reparto in quel modo.

L’idea di piantare un casino colossale verso la direzione ospedaliera lo caricò di nuova energia. Doveva tornare a lottare.

Ogni mattina mi sveglio pensando che ho mille e duecento dipendenti sotto di me, anche se non ne conosco neppure uno di persona. Mio padre era un operaio, ho costruito il mio impero dal niente e, se sono arrivato fino a qua, è perché non mollo mai.

Doveva mettere subito in moto la cosa. Gettò la cicca, sfilò il Blackberry dalla tasca interna del cappotto e selezionò il numero della segretaria personale, l’unica persona con la quale si era lasciato andare a qualche confidenza privata.

– …vodafone messaggio gratuito…

Merda.

L’immagine del quadretto familiare impegnato nella cena prenatalizia provocò un rigurgito acido nell’esofago di Michele Mainardi.

Due mesi di vita, forse tre.

Alla fine era riuscito a strappare una data alla dottoressa.

Lasciò il Cayenne nel parcheggio del Millenium, accese una Muratti, sbuffò una nuvola grigia di fumo e si incamminò a piedi attraverso i due isolati che lo separavano dal suo condominio.

Si accorse che per la terza volta in meno di un’ora si sentiva solo.

Pensò alle cose che aveva ottenuto dalla vita, ai mille e duecento dipendenti sotto di sé, alla collezione di armi antiche che custodiva gelosamente nel salone del superattico.

Pensò agli anni passati a circondarsi di persone, senza mai permettere a nessuno di avvicinarsi veramente.

Pensò alla vita divorata, all’agenda costantemente stivata di impegni per non avere mai un minuto libero. Per non sentire quel vuoto che adesso stringeva le viscere. Una cura palliativa.

Una fine pioggia gelata iniziò a scendere dal cielo nero.

 

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