Van Gogh Milano – L’uomo e la terra

van-gogh-paesaggio-con-covoni-di-grano-e-luna-che-sorge-1889« Anche se seguito a produrre opere nelle quali si potranno ritrovare difetti, volendole considerare con occhio critico, esse avranno una vita propria e una ragione d’essere che supereranno i loro difetti, soprattutto per coloro che sapranno apprezzarne il carattere e lo spirito. Non mi lascerò incantare facilmente, come si crede, nonostante tutti i miei errori. So perfettamente quale scopo perseguo; e sono fermamente convinto di essere, nonostante tutto, sulla buona strada, quando voglio dipingere ciò che sento e sento ciò che dipingo, per preoccuparmi di quello che gli altri dicono di me. Tuttavia, a volte questo mi avvelena la vita, e credo che molto probabilmente più d’uno rimpiangerà un giorno quello che ha detto di me e di avermi ricoperto di ostilità e di indifferenza. Io paro i colpi isolandomi, al punto che non vedo letteralmente più nessuno »

« Osservo negli altri che anch’essi durante le crisi percepiscono suoni e voci strane come me e vedono le cose trasformate. E questo mitiga l’orrore che conservavo delle crisi che ho avuto […] oso credere che una volta che si sa quello che si è, una volta che si ha coscienza del proprio stato e di poter essere soggetti a delle crisi, allora si può fare qualcosa per non essere sorpresi dall’angoscia e dal terrore […] Quelli che sono in questo luogo da molti anni, a mio parere soffrono di un completo afflosciamento. Il mio lavoro mi preserverà in qualche misura da un tale pericolo. »

« Mi sono rimesso al lavoro, anche se il pennello mi casca quasi di mano e, sapendo perfettamente ciò che volevo, ho ancora dipinto tre grandi tele. Sono immense distese di grano sotto cieli tormentati, e non ho avuto difficoltà per cercare di esprimere la mia tristezza, l’estrema solitudine. »

(Van Gogh – L’uomo e la terra – Palazzo Reale Milano – 18 Ottobre 2014 / 8 Marzo 2015)

PASSATO – FUTURO – IDENTITA’ (3/3)

Segue da PASSATO – FUTURO – IDENTITA’ (2/3)

Alla voce sentimenti: Aharon Markus era un autodidatta, che da sé aveva imparato sei lingue (tra cui l’arabo e lo spagnolo); amava la musica classica, e i l suo hobby era copiare partiture per i l Teatro dell’Opera di Varsavia. … Era un uomo dall’animo delicato, elegante e accurato nel vestire. Fino allo scoppio della guerra usava portare un garofano all’occhiello. (Nel risvolto interno del bavero della sua giacca era cucito un piccolo ditale di stagno, che il  farmacista teneva sempre pieno d’acqua per il gambo del fiore.) … In quel periodo l’ex farmacista aveva cominciato – non si sa per quale sua personale ragione – a eseguire i suoi estenuanti esperimenti sul sentimento umano. Aveva disegnato dapprima una mappa in cui aveva annotato a uno a uno tutti i sentimenti umani conosciuti, aveva catalogato quei sentimenti dividendoli per categorie, ne aveva espurgato i sinonimi descriventi, in pratica, uno stesso sentimento, aveva diviso la lista in “sentimenti mentali” (cioè del cervello) e “sentimenti cordiali” (cioè “del cuore”, “dell’anima”), e poi in sentimenti “primari” e “secondari”. Poi aveva cominciato a seguire attentamente se stesso e i suoi pochi amici, con l’intenzione di individuare i sentimenti più “attivi”, cioè i sentimenti che hanno maggiore influenza sull’anima umana. … «Con grande commozione eccomi ad annotare quanto segue: si sappia che tra “timore” e “terrore” ho scoperto e definito e denominato altre sette sfumature di sentimento, più o meno forti ma tutte, senza dubbio alcuno, “sentimenti primari”» … Aharon Markus cominciò a effettuare incroci tra sentimenti che fino ad allora erano considerati del tutto diversi, perfino nemici. Quell’uomo che tra sé e sé si era affibbiato, con superba modestia, l’appellativo di “astronauta del sentimento”, tentò di accoppiare, per esempio, il timore con la speranza; o la malinconia col desiderio nostalgico; facendo ciò, a quanto pare, cercava il modo di introdurre in ogni sentimento spiacevole, dannoso e rovinoso, il seme del suo stesso superamento. Della salvezza da se stesso … «E ciò fece, il nostro Markus, con una strana fretta, quasi il tempo stringesse… e suo desiderio era di moderare la malvagità, di ammorbidirla, di calmarla, di infettarla con i microbi ragionevoli e tristi della sofferenza, e chi mai potrà capire l’animo di un artista?…».

(David Grossman – Vedi alla voce: amore – 1986)

Il fatto che l’arte israeliana sia diventata sensibile “al dolore degli altri”, testimonia che possiede un nucleo e un impegno umanistici. Non richiedendo l’esclusività per il loro lutto, gli Israeliani dimostrano di riconoscere che è inclusivo, e di avere a cuore i valori di vita e pace in modo più profondo che mai.

(Hannah Naveh – Esiste un luogo – 2009)

L’identità: multi-etnicità, la diversità, il militarismo, il conflitto, che sarà di noi?

Durar Bacri - Autoritratto con capra (2006)Durar Bacri, un giovane artista arabo di Acco, proviene da una grande famiglia le cui radici in Israele risalgono a 600 anni fa. I suoi quadri affrontano questioni riguardanti la sua identità e stile di vita in quanto arabo che vive nello stato ebraico in cui è nato. Da un lato Bacri cerca di integrarsi nella vita culturale, dall’altro ha premura di onorare e ricordare le sue radici arabe e l’affiliazione con la cultura araba. Spiega l’artista: “lo sono il vero straniero, colpito da stigma e pregiudizi, ma al tempo stesso vivo con sicurezza e orgoglio nella terra dei miei antenati”. Attraverso le sue opere Bacri cerca di raffigurare l’arabo moderno, rappresentandolo così come lo vede l’artista: “attraente, sexy, che domina il paesaggio circostante”. Spiega Bacri: “Al fine di dimostrare che un arabo è in grado di utilizzare le tecniche della tradizione europea, dipingo quadri a olio di grandi dimensioni, senza cercare di ottenere la finitura realistica di un’immagine fotografica”. Grazie a un’illuminazione scenografica e a pennellate piatte, con netti contrasti di luci e ombre, Bacri crea un collegamento fra lo stile europeo e lo stile arabo tradizionale, alterando cosi la realtà: “Cerco di contaminare la realtà e di ricavarne qualcosa di nuovo”.

Muro di protezione, quartiere di Gito, Gerusalemme (2004)Lo spettacolo delle romantiche distese naturali delle fotografie di paesaggio di Shai Kremer catturano lo spettatore con la loro bellezza. Nei suoi lavori riecheggia la sensazione di nostalgia per le sublimi descrizioni paesaggistiche del Diciannovesimo e Ventesimo secolo, destinate a creare un senso di appartenenza alla Terra d’Israele. Solo a un secondo sguardo si nota che bellezza e nostalgia sono stratagemmi per attrarre l’attenzione sulla distruzione del paesaggio causata dal conflitto arabo-israeliano e dalla continua guerra contro il terrorismo. “La bellezza è uno strumento di grande potenza” afferma Kremer, che condivide l’idea espressa dal fotografo americano Richard Misrach: “La bellezza è un veicolo per comunicare idee complesse”. L’autore prosegue poi: “Credo che ci si debba distanziare un po’, e creare delle composizioni molto seducenti, esteticamente forti, per spingere lo spettatore a soffermarsi e a osservare, in modo che, quando il colpo arriva, risulti in qualche modo attutito”. Nella fotografia “Muro di protezione, quartiere di Gito”, Gerusalemme, 2004. Kremer documenta un tratto dipinto della Barriera di separazione che divide il quartiere gerosolimitano di Gilo dalle zone palestinesi. I graffiti, probabilmente dipinti da nuovi immigranti arrivati dalla Russia con l’intenzione di ammorbidire la brutalità del muro di cemento, non riescono ad alleggerire la sensazione di soffocamento che esso produce. Il contrasto con il tratto panoramico al suo fianco, dove dalla terra rocciosa spunta un cipresso e all’orizzonte s’intravedono le case del villaggio palestinese di Beit Jalla, accresce la sensazione di opportunità mancata causata dalla guerra. L’opera di Kremer mette in guardia dal trasformare i resti della guerra in un elemento permanente nella vita degli uomini, e invita lo spettatore a meditare sugli effetti a lungo termine della violenza prolungata.

Checkpoint di Qalqilya (2002)Pavel Wolberg ha iniziato come fotografo d’arte e solo successivamente è passato a occuparsi di eventi di attualità, registrando la realtà israeliana in molti luoghi ed eventi diversi. Egli cattura le figure in “istantanee fugaci”; il suo obiettivo illustra l’inaspettato e permette ai nostri sensi di confrontarsi con scene divenute ormai insignificanti a causa del continuo contatto quotidiano: il conflitto israelo-palestinese, la seconda guerra del Libano, il muro di separazione, i rapporti fra laici e religiosi, le esperienze caratteristiche delle strade di Tel Aviv, i pellegrinaggi in Terra Santa e così via. “Ho molte critiche da fare a com’è il mondo”, spiega Wolberg. “Non posso osservarlo e dire: ‘È così che dovrebbe essere. Il mondo va bene’. Mi piace scoprire le cose che non vanno bene e mostrarle agli altri. L’opera “Checkpoint di Qalqilya” (2002), per esempio, illustra un incontro di routine fra un soldato israeliano e una donna palestinese in un punto di passaggio del confine durante un coprifuoco in quell’anno. Wolberg è riuscito a catturare l’intimità di un momento imposto alle due persone dalla realtà. Il soldato, con il fucile in mano, guarda la giovane donna che gli sorride in modo diretto. I fasci di luce che cadono sul viso della donna enfatizzano ulteriormente la sua presenza. Niente, nel linguaggio corporeo della donna, fa pensare che essa si ritragga o che eviti il soldato, e il suo sorriso resta prudente. Indica forse un appello, una richiesta, una reazione a qualcosa che i due si sono detti? L’uniforme del soldato, il calcio del fucile, l’abito modesto della giovane donna e persino i cavi elettrici sullo sfondo portano a una certa interpretazione dell’insieme qui rappresentato, insieme che – se il contesto fosse stato diverso – avrebbe potuto dare un’impressione molto diversa. Inevitabilmente, nell’ambito della copertura degli eventi di attualità di rilievo, le fotografie di Wolberg includono spesso viste diverse di soldati, alcune delle quali risultano sorprendenti.

PASSATO – FUTURO – IDENTITA’ (2/3)

Segue da PASSATO – FUTURO – IDENTITA’  (1/3)

Integralismo, rifiuto del cambiamento, ideale di passato, fierezza. Ci si potrebbe aspettare di trovare nelle opere d’arte contemporanee i riflessi di una tragedia immane, di disperazione e di rovina. In parte questo è tangibile. Ma se di tragedia si può parlare, questa è la disperazione e la rovina dovuta al continuo stato di allerta per il conflitto in atto. Si è consci del passato, mentre il futuro sembra derivare da un presente dilatato di positività, ma non di ottimismo.

Riprendiamo come spunti di indagine e riflessione alcuni esempi di artisti israeliani contemporanei che non costituiscono di certo la globalità dell’arte di questo popolo, ma forse ne delineano i tratti interessanti e distintivi.

Il futuro: il mito del soldato, la bellezza della gioventù, la prospettiva

Nir Hod - Gioventù perduta (2003)Nell’opera “Gioventù perduta”, Nir Hod raffigura un funerale militare. Il dipinto, prodotto direttamente da una fotografia di giornale raffigura un gruppo di giovani soldati visti attraverso il centro di una corona funebre di grandi dimensioni. La bara del compagno morto, anche se non è visibile nel quadro, è indicata dalla presenza dei fiori e dei soldati che fanno il saluto militare. Le opere di Nir Hod sono dominate da immagini di giovani bellissimi circondati da fiori altrettanto belli in vari stadi della fioritura, creando così un evidente collegamento fra bellezza, gioventù e morte. Questa predominanza chiarisce che non è solo il dolore a essere traumatico, ma anche la bellezza ad esso collegata. “Il quadro del funerale è un passaggio alla politica”, spiega Hod. “Si tratta di un funerale universale che commemora tutti i giovani, soldati di entrambi i sessi, chiunque essi siano”.

Trembling Time (2001)Yael Bartana è una videoartista la cui famiglia è profondamente radicata in Israele. Le sue opere indagano gli aspetti sociali, militari e nazionali della società israeliana che contribuiscono a formarne l’identità. Il suo lavoro Trembling Time (2001), descrive il rituale suono della sirena che segnala l’inizio del giorno dedicato alla memoria dei soldati caduti nelle guerre d’Israele. Ogni anno, il giorno 4 del mese di lyar del calendario ebraico, alle otto di sera, in tutto il paese risuona per un minuto una sirena che annuncia l’inizio del giorno della memoria dei caduti. La sirena costituisce una particolare consuetudine nazionale israeliana, che si è sviluppata dopo la fondazione dello stato ed è formalizzata da una legge. Essenzialmente è un segnale, che per un preciso lasso di tempo strappa al fluire regolare della vita i cittadini israeliani: tutti interrompono all’istante le loro occupazioni per bloccarsi sull’attenti a testa china; solo l’urlo della sirena taglia il silenzio. Per un minuto l’individuo e lo stato si fondono, uniti nel lutto nazionale. Non appena la sirena cessa, ognuno ritorna alle proprie occupazioni.

Shirat Ha-Yam, Il canto del mare (2005)Osservando le fotografie panoramiche di grandi dimensioni di Barry Frydiender, l’occhio vaga senza fermarsi in un singolo punto. Qui non si tratta del solito, rapido, sguardo sufficiente per una fotografia; è necessaria un’osservazione che richiede una lunga sosta di fronte all’opera. I lavori sono costituiti da decine di fotografie scattate in orari e giorni diversi, con fotografo e macchina fotografica in movimento, con l’obbiettivo esposto per tempi diversi, successivamente montate ed elaborate digitalmente. Il prodotto finale sono composizioni ricche di dettagli, che rappresentano il soggetto – luogo o persone che siano – con straordinaria eleganza, ben superiore all’immediato e al concreto dato reale. “Shirat Ha-Yam”, (Il canto del mare) del 2005, è il nome di un piccolo insediamento costiero nel sud della Striscia di Gaza, che è stato evacuato durante il ritiro israeliano da Gaza nell’agosto 2005. Frydiender si è recato sul posto per documentare l’evento “Volevo essere presente all’inizio, proprio nel momento della fine dell’occupazione”, ha commentato. Nella fotografia si vedono il piccolo insediamento e suoi abitanti circondati dai soldati. I militari sono schierati a semicerchio, in perfetto ordine, mentre gli abitanti sembrano spinti verso l’acqua; questa volta non più dagli egiziani, come nel caso dell’Esodo biblico, bensì da soldati israeliani.

A seguire

PASSATO – FUTURO – IDENTITA’ (1/3)

bambiniQuella di Israele è storia di un popolo che in modo per lo più inspiegabile, è sopravvissuto a condizioni nelle quali ogni altra minoranza si è dispersa, disciolta all’interno della società dominante che la ospitava. (Giorgio Tavani – Israele, una storia d’amore – Nov.2013)

Le ragioni di questa coesione e resistenza alle forze centrifughe sono certamente intuibili seguendo il filo logico che intreccia storia a narrazione senza però comprenderne i risvolti più intimi. Gli elementi che hanno fatto da collante per questo popolo, a noi così distante ma per certi versi così prossimo, sono registrate in fatti, scritti, monumenti, oggetti, ma nello stesso tempo, e forse molto meglio, nelle emozioni degli individui che lo compongono.

Cosa distingue gli israeliani dalle altre nazioni? A questa domanda, quasi tutti risponderebbero che il tipico israeliano è veramente un tipo particolare. Naturalmente molti elementi distintivi israeliani hanno origine nella tradizione, nella storia e nella cultura degli ebrei, ma molti altri sono unici e assai distanti dalle caratteristiche degli ebrei della diaspora.  (Oz Almog – Il genoma Sabra nella mentalità israeliana – 2009) 

Una risposta, o meglio un tentativo di capire, ci è data da un angolo di visuale molto particolare, l’arte figurativa,  che in modo privilegiato espone al nostro senso più intuitivo, la vista, quanto di meglio l’animo umano è in grado di sintetizzare.  Alcune considerazioni preliminari ci aiutano ad inquadrare i fatti. Sono tratte da un saggio di Naomi Aviv, curatrice indipendente dell’arte contemporanea a Tel Aviv, Israele, pubblicato in occasione della mostra “AS IS”, tenuta nel Complesso del Vittoriano a Roma nel 2009-2010 a cura di Ruth Cats. 

La breve storia dell’arte israeliana inizia nel 1906, con la fondazione di Bezalel, la prima Accademia di Arte e Design a Gerusalemme. Gli insegnanti dell’Accademia erano immigrati che portavano con sé l’influenza artistica dei diversi paesi di provenienza, soprattutto europei. La loro visione della nuova terra natale nel cuore del medio Oriente era edulcorata, le loro opere raccontavano ed descrivevano i luoghi, i panorami, gli abitanti e i pionieri che costruivano il paese. Nel 1948, data di fondazione dello stato d’Israele, si costituisce il gruppo Ofakim Chadasim, “Nuovi orizzonti”, unito dalla convinzione che fosse necessario prendere le distanze dalla politica per creare un’arte caratterizzata ed indipendente. Negli anni Sessanta l’arte Israeliana passa dall’astrattismo lirico, con la sua inclinazione alla rappresentazione concreta di un luogo fisico, all’astrattismo “assoluto”, incentrato sul tempo della pittura, o sulla materia concreta della quale è fatta l’opera d’arte. La tendenza concettuale si estende negli anni Settanta, quando tematiche come il “luogo” acquisiscono significati diversi, legati alla terra, al confine, alla rappresentazione di sé ma anche a idee metafisiche, spirituali e metaforiche sul “non-luogo” e sulla “impossibilità del luogo” intesa come concezione tradizionale ebraica, profonda e mitica. “Dio è una sorta di luogo senza luogo, è ovunque, intorno a noi, nonostante non si trovi in nessun posto”. Quella che ancora oggi è definita Arte di Eretz Israel (La Terra di Israele) era la rappresentazione esotica, affascinante dell’oriente, popolata da immagini di arabi in abiti tradizionali, di donne arabe in cammino tra i frutteti con un’anfora d’acqua in testa. Gli anni Ottanta, definiti come Il tempo del post, allusione al passaggio da tardo modernismo al post-modernismo, in Israele come in tutto il mondo occidentale, sono caratterizzati da tematiche che ne riflettono l’epoca, in primis il processo di logoramento dei grandiosi slogan sionisti e la disintegrazione del sogno di solidarietà e lo stabilirsi di un’ironia disfattista. “Alla fine si muore: arte giovane negli anni Novanta in Israele” è il titolo di una mostra imperniata sui reportage giornalisti e fotografici delle aberrazioni dell’occupazione. E’ degli anni iniziali del secondo millennio la comparsa di tutti i mezzi d’espressione e un numero notevole di artisti che sono riusciti ad “oltrepassare i confini del paese”. Lo sguardo si rivolge all’esterno, alla scena internazionale, e sono meno numerosi i riferimenti al “qui e ora” politico.

Esiste un’arte israeliana? Che caratteristiche ha? È legittimo chiedersi se esiste? Non è una questione viziosa, etichettare come nazionale una creazione che per sua natura dovrebbe essere puramente individuale? Anche l’arte italiana, per esempio, soffre di complessi simili? E la tedesca? La francese? Il dissenso sulla questione dell’identità dell’arte israeliana non è separabile dal dilemma riguardante il luogo e l’inquietudine generata negli israeliani dal non sentirsi sicuri nel proprio paese. Sradicamento, immigrazione ed emigrazione, integrazione, distacco dal luogo di provenienza e necessità di inserirsi nel luogo utopico (utopia è proprio il non-luogo) in cui si arriva, il problema di restare fedeli alla cultura di origine o piuttosto di adottare la versione locale di un posto che è stato, che è, e che sarà.

Non esiste un’arte israeliana. Esiste un’arte prodotta da artisti israeliani, una buona arte,  questo lo ammettono tutti, e giustamente. Ciò ci riporta all’annosa questione di “chi è ebreo?”, che per quasi tutta l’esistenza dello stato d’Israele, quando i precetti religiosi hanno perso il ruolo di legge per buona parte del popolo ebraico, è stata lo scottante pomo della discordia. Le risposte dividevano gli israeliani in due gruppi: quanti ritenevano che fosse ebreo chi è nato da madre ebrea o si è convertito secondo il rito ortodosso, e chi, invece, considerava ebreo chi aveva scelto di far parte del popolo ebraico. Con il passare del tempo, la disputa si è affievolita e si è definita in questo modo: i religiosi continuano a difendere strenuamente la prima tesi, mentre la maggioranza dei laici sostengono la seconda. E chi è un artista israeliano? Artista israeliano è chi sceglie di definirsi tale, anche se vive da trenta o quarant’anni a Londra o a New York, purché sia un artista valido…

Come puro tentativo di avvicinamento alla comprensione e non certo in modo esaustivo e completo, è possibile affrontare la questione secondo tre temi fondamentali rappresentati nell’arte figurativa contemporanea: il passato, il futuro, l’identità.

Il Passato: il Sionismo, la tradizione, la memoria, l’oblio

Hila Karabelnikov - Mea Shearim II (2007)Hila Karabelnikov ritrae il quartiere ultraortodosso più estremo di Gerusalemme, un quartiere praticamente separato dalla vita e cultura israeliana, in cui i residenti continuano a vivere come negli antichi “shteti” (i villaggi ebraici dell’Europa orientale) delle terre dei loro antenati, nell’attesa del Messia che deve redimere il popolo ebraico. L’opera ha come tema la festività di Succot, come indicato dagli uomini che indossano soprabiti estivi di colore chiaro, che contrastano nettamente con gli indumenti scuri di ogni giorno, e anche dalla Succah (la capanna) che si erge dietro di essi. Si tratta di una visione estremamente personale; all’epoca della creazione dell’opera, il fratello dell’artista giaceva paralizzato, in stato di incoscienza, in un letto d’ospedale, pochi giorni prima di morire. Questo elemento spiega l’aspetto serio delle figure, alcune delle quali guardano in avanti mentre altre fissano in modo inespressivo gli spettatori. All’estrema destra appare un ritratto dell’artista, incompiuto, dietro a un poster (del tipo noto come pashkevil’) che invita a rispettare l’obbligo di vestirsi in modo pudico. Il modo di vestirsi dell’artista, però, non è per niente pudico, bensì vistoso se non addirittura provocante. È questo il suo modo di esprimere il suo grande dolore e la rabbia di fronte all’amaro destino del fratello e di mettere in discussione l’importanza di un abbigliamento pudico, e addirittura l’esistenza stessa di tali imposizioni religiose, in un simile momento della propria vita.

Elie Shamir - Ninna Nanna per la valle (2008)Elie Shamir è nato e cresciuto a Kfar Yehoshua, un moshav (comunità agricola cooperativa composta da fattorie indipendenti) nella valle di JezreeI, luogo che simbolizza al meglio la realizzazione del sogno sionista e contemporaneamente evidenzia con la massima chiarezza i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni nella società israeliana. Il mutamento più rilevante è il passaggio dal lavoro collettivo, manuale, alle attività commerciali private, prevalentemente nel campo dell’hightech. Kefar Yehoshua ha formato ElieShamir come persona e come artista. La relazione ambivalente col posto in cui è nato si riflette nei suoi lavori, in cui l’artista riesamina il proprio ambiente e il proprio posto al suo interno. Riconsidera i valori mitici secondo i quali è stato cresciuto, rimettendo in gioco il senso di appartenenza verso la casa e la terra della sua infanzia. Nell’opera “Ninna Nanna per la valle”, Shamir definisce la propria esistenza ebraica e identità israeliana contrapponendole a tematiche cristiane e alla tradizione artistica europea. Nella composizione – un coro di cantanti accompagnati da un vecchio pioniere seduto che suona la fisarmonica – , Shamir dipinge gli aridi, spogli campi di Kefar Yehoshua. Il coro di Shamir sta cantando La canzone della valle, del poeta israeliano Nathan Alterman, una ninna nanna che descrive i generosi sacrifici dei primi pionieri della valle che hanno reso fertile una terra desertica. Per loro, il lavoro agricolo era la nuova religione, a cui solamente i nuovi ebrei dovevano dedicarsi. L’opinione realistica, dolorosa e critica di Shamir riguardo ai cambiamenti in atto nella società israeliana trapela chiaramente dalla messa in scena artificiale e sgraziata della composizione, che sfida e sovverte il tema dell’adorazione della Natività. Le donne del coro a prima vista sembrerebbero figlie della generazione dei pionieri sionisti, prova vivente del loro successo, intente a cantarne le lodi, ma la visione di trionfante fiducia è scalfita dalla presenza di una donna tailandese, giunta al moshav come lavoratrice straniera ed ora assimilata nella società israeliana. Di tutto il gruppo, è lei l’unica che canta di cuore, orgogliosa, e così facendo esemplifica il processo iniziato dopo la guerra dei Sei Giorni, quando i lavori più umili sono stati trasferiti dagli israeliani ai palestinesi, e poi ai lavoratori  immigrati. Il ritratto delle altre cantanti trasmette ansia. Una abbassa lo sguardo e si stringe le mani in un gesto di apprensione ed incertezza, mentre tutti gli altri, compreso il suonatore di fisarmonica, distanti e distaccati, si esibiscono meccanicamente. Esprimono così l’angoscia esistenziale di Shamir per il futuro della sua patria. La sua ninna nanna è una nenia funebre, o una canzone che accompagna la valle in un sano riposo, dal quale emergerà ringiovanita e pronta ad affrontare le sfide di un futuro mutevole ed incerto.

Vardi Kahana - Tre sorelle (1992)La formazione giornalistica  ha insegnato a Vardi Kahana a catturare il momento e documentare lo spirito dell’epoca (l’air du temps). Il suo istinto le ha poi permesso di riconoscere l’aspetto pan-umanistico della storia della sua famiglia e di partire per un lungo viaggio meditativo nella grande saga della sua vicenda familiare. Il progetto di Kahana, Una famiglia, comprende quasi cento fotografie in cui l’artista segue con discrezione le tracce del rinnovamento della sua famiglia nel periodo successivo all’Olocausto, presentando una dinastia che si estende per quattro generazioni e tre continenti. I potenti ed eloquenti ritratti dei membri della famiglia, che rimandano a momenti centrali delle loro vite, sono scattati nel loro ambiente; in tal modo l’artista sintetizza il ritorno del popolo ebraico e lo sviluppo di Israele in una nazione. Durante il lavoro, Kahana s’imbatte in questioni, domande e dilemmi di grande attualità: la “purezza delle armi”, il lutto, gli insediamenti ebraici nei territori occupati, la tensione fra arabi ed ebrei a Gerusalemme est, il presente e il futuro della vita nel kibbutz, l’ortodossia e il laicismo. Il viaggio personale di Kahana attraverso la cinquantina di nuclei familiari che compongono la sua famiglia allargata riflette la varietà dei modi di vivere degli israeliani. La scelta del ritratto, forma tradizionale di descrizione preferita per la capacità di sintetizzare la personalità dei modelli preservandone l’essenza fisica, risveglia in chi guarda, abituato a questa modalità di rappresentazione, un senso di familiarità. Lo spettatore è invitato a stabilire un legame con la propria famiglia in modo personale ed estremamente intimo. La fotografia in bianco e nero lo riporta indietro nel tempo, ad un’era meno tecnologica, e impregna il lavoro di Kahana di nostalgia. “Tre sorelle” presenta l’origine della grande famiglia di Kahana: sua madre e le sue due sorelle, tutte e tre sopravvissute all’Olocausto. Gli agghiaccianti numeri consecutivi tatuati sul braccio di ciascuna testimoniano l’ordine con cui sono state registrate ad Auschwitz. Lo sguardo fiero, rivolto all’obiettivo della loro figlia e nipote, rivela la forza che le ha sostenute durante la catastrofe e che le contraddistingue ancora oggi.

A seguire

UN POPOLO, UNA STORIA D’AMORE

Reuven Rubin - The Sea of Galilee - 1926-28

Reuven Rubin – The Sea of Galilee – 1926-28

Di solito un conflitto tra popoli ci coinvolge emotivamente e se dura da decenni, o meglio da secoli, la domanda è una sola: perché?

Differenze culturali, scontri sociali, problemi oggettivi, si concretizzano in forti contrapposizioni tra amore e odio, valore e distruzione, integrazione e separazione. Su queste è ancora più urgente il “capire”.

Da questa settimana Giorgio Tavani propone alcune riflessioni su quanto conosciamo del Popolo d’Israele attraverso una lettura critica della sua storia e dei suoi miti. “… Israele è una storia da raccontare, al di là di “quel che si sa” e di “quel che si dice”, con verità, disincanto e inquieto amore”.

Su questo blog, viceversa, chi vorrà potrà contribuire alla discussione affrontando l’argomento da un altro punto di vista: conoscere un popolo attraverso  le arti figurative, la letteratura e la musica.

Di volta in volta, avremo la possibilità di incrociare riferimenti storici, sociali, religiosi con una loro lettura trasversale fatta di pitture, sculture, architetture, fotografie, cinema, … Almeno ci proviamo.

Per maggiori dettagli e iscrizione ai corsi:

–  La scheda del corso

–  Unitre: G75 – ISRAELE, UNA STORIA D’AMORE

–  Varese Corsi: 21- ISRAELE, UNA STORIA D’AMORE

I MANIFESTI DI FOLON

“Un buon manifesto è quello che si rivolge prima di tutto agli occhi. Non è certo quello che si rivolge prima al pensiero. Un manifesto è soprattutto un fatto visivo. Parlare agli occhi, ecco la forza di un’immagine. Un manifesto può parlare senza una parola. “

Folon

Chiostro di Voltorre Gavirate (VA) fino al 12 Gennaio 2014

ANDY WARHOL – PALAZZO REALE MILANO

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Niente della Pop art ci è così familiare come le serigrafie cangianti di Andy Warhol. Il loro contenuto apparentemente spontaneo e ridotto a semplice comunicazione fa parte del nostro percepire il paesaggio metropolitano quotidiano. Sia da un manifesto pubblicitario che nella fotografia di una rock star, il suo stile efficace ci pervade. Pare di capire meglio lui di chiunque altro dell’arte  contemporanea.

La mostra di Palazzo Reale a Milano inaugurata ieri (apertura fino al 9 marzo 2014) sembra invece organizzata con la testa all’ingiù: “Non pensare di fare arte, falla e basta. Lascia che siano gli altri a decidete se è buona o cattiva, se gli piace o gli faccia schifo. Intanto mentre gli altri sono lì a decidere tu fai ancora più arte”. Purché si inizi dunque, avanti c’è posto. Ma cos’era la prima sala grigia e dimessa, e lo stanzino per il video di prassi? Mistero.

Le scatole dei prodotti commerciali, la Campbell’s, la CocaCola, gli autoritratti, gli scatti per i divi del cinema, la sequenza ossessiva di Elvis o della Gioconda, fanno intuire di essere arrivati finalmente a casa, nel nostro contemporaneo. La vera gioia però, è nell’ammirare le grandi tele, quelle che non possono stare nello schermo ristretto della televisione. Flowers inediti di almeno 3 metri, i Mao coloratissimi, il totem imperante del dollaro, le inquietanti sedie elettriche, gli ossidi “puzzolenti”, le macchie di Rorschach, l’Ultima cena per la sua ultima mostra (Milano 1987). Che dire, ne valeva la pena.

POLLOCK E GLI IRASCIBILI

“The undersigned painters reject the monster national exhibition to be held at the Metropolitan Museum of Art next December . . . The choice of jurors . . . does not warrant any hope that a just proportion of advanced art will be included. We draw to the attention of these gentlemen the historical fact that, for roughly a hundred years, only advanced art has made any consequential contribution to civilization . . .”

01_pollock_638-366Così scrivevano i 18 Irascibili al Presidente Roland L. Redmond il 5 Giugno 1950 segnando definitivamente un netto confine tra il prima e il dopo dell’arte contemporanea americana. Jackson Pollock, Willem de Kooning, Mark Rothko, Robert Motherwell, Barnett Newman sono alcuni dei protagonisti della mostra di Palazzo Reale a Milano (fino al 24 Febraio 2014), disposti in un’incredibile carellata di dripping, color field, action painting.

Per capire fino in fondo cosa ha significato per questo gruppo di visionari la rottura coi movimenti artistici europei della prima metà del novecento, dobbiamo dare un’occhiata alla società americana che in quegli anni subiva, in altri campi, un’analoga trasformazione ad opera degli hipster: nel cinema con James Dean – Gioventù bruciata “55, con Marlon Brando – Il selvaggio “54, nella letteratura con J.D. Salinger – Il giovane Holden “51, con Allen Ginsberg e la beat generation, nella musica con Miles Davis – Kind of blue “59, con Elvis Presley – Hound dog, 13 milioni di copie, nel “53.

Dove eravamo noi in Italia? Il vincitore del Festival di Sanremo del “55, la prima in diretta TV, era Claudio Villa con Buongiorno tristezza! Di contro, nel “51  nasceva il cosiddetto Movimento Arte Nucleare di Enrico Baj che dipingeva nello stesso anno Vedeteci quel che vi pare.

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REMO BRINDISI CON GLI OCCHI DI UN ALTRO

Qui c’è un paradosso, un paradosso bellissimo, che io non riesco a risolvere. Se davvero esiste una differenza fondamentale fra esperienza e descrizione, fra conoscenza diretta e mediata del mondo, come mai il linguaggio riesce ad essere così potente? Il linguaggio, questa invenzione squisitamente umana, può consentire quello che, in linea di principio, non dovrebbe essere possibile. Può permettere a tutti noi – perfino a chi è cieco dalla nascita – di vedere con gli occhi di un altro. (O.Sacks – L’occhio della mente – Adelphi)

E’ strabiliante constatare quanta delicatezza e attenzione il Museo Parisi-Valle di Maccagno abbia mostrato nei confronti dei ciechi e degli ipovedenti in occasione della mostra personale di “Remo Brindisi”. Le opere esposte hanno una breve trascrizione in Braille e all’ingresso è disponibile un catalogo descrittivo con testi stampati in un corpo molto grande per facilitarne la lettura. Chi non ha mai dimenticato gli occhiali a casa, scagli la prima pietra. E c’è chi fa di più: si chiama “Vedere con le mani per conoscere l’arte” ed è un progetto lanciato dall’Unione nazionale italiana volontari pro ciechi (Univoc). A prendervi parte, alcuni tra i maggiori musei di Torino e del Piemonte.

Una ragione in più per una visita rilassante sul lago Maggiore. La mostra è aperta dal giovedì alla domenica fino al 8 settembre 2013.

Picasso a Palazzo Reale

Due cose colpiscono nel vedere la mostra di Palazzo Reale a Milano: l’esposizione mediatica di Guernica nella stessa identica posizione del 1953 nella sala delle Cariatidi e la facilità con cui riconosciamo le opere di Pablo Picasso a colpo d’occhio.

La prima, una tela elettronica che si dipinge davanti ai nostri occhi, ci dimostra che poco è cambiato nei grigi, bianchi e neri e nel terrore delle teste urlanti. La storia non l’abbiamo digerita, la paura è (ancora) parte di noi.

La seconda, che si manifesta con un piccolo sorriso di sorpresa quando oltrepassiamo le soglie della collana di stanze, ci conferma che il tratto libero dell’artista è nel nostro io. La cultura trascende la storia, forse la storia siamo noi.