FINALE CON SORPRESA
Di SARA BRUGO
Girò la chiave di uno scatto, il cruscotto si illuminò e l’orologio digitale le lampeggiò in faccia quello che già sapeva: era ancora troppo presto e lei era irrimediabilmente in anticipo.
Come sempre, del resto.
Le sarebbe piaciuto, anche solo per una volta, arrivare in ritardo ad un appuntamento. Aprire la porta e dire con un sorriso ammiccante: “Oh, siete già tutti qui! Mi avete aspettato. Ma non dovevate, potevate cominciare senza di me!” Guardarsi un attimo in giro e abbattere definitivamente il muro del disappunto con un bel “Mi dispiace!”. E poi, fare come se niente fosse, senza arrossire, senza provare imbarazzo per il resto del tempo.
Alberta però non avrebbe mai potuto. Lo sapeva e si era rassegnata alle attese, ad aspettare che il tempo scorresse, che qualcuno prima di lei arrivasse ad accendere una luce, aprire una porta.
Alla fine qualcuno arrivò: Cesare svoltò l’angolo, scese dalla bicicletta, la appoggiò al muro e la chiuse col lucchetto.
“Buonasera” gli disse Alberta arrivandole alle spalle. Cesare ebbe un sobbalzo. “Ah, non l’avevo vista. Mi ha spaventato”.
“Incominciamo bene la serata” pensò Alberta, “Adesso terrorizzo anche i custodi.”
L’uomo aprì con il pesante mazzo di chiavi il portone, allungò una mano nel buio e accese la luce.
“Non c’è ancora nessuno, signorina”
“Va be’, incomincio a prendere posto.”
“Allora, avete iniziato a leggere il copione, a capire un po’ qual è la vostra parte, ad entrare nei vostri personaggi?” domanda il regista mentre la sua voce in un crescendo si impenna.
Nessuno osa rispondere, tutti guardano da un’altra parte.
“Begli aspiranti attori ho qui! Non avete coraggio. Come pensate di uscire in scena? Immaginatevi il teatro nella penombra: potete solo indovinare i volti degli spettatori in platea, mentre le gallerie stanno lassù, mute ed enigmatiche come sfingi. E voi state lì, nel cerchio di luce del palco, e vi potete fidare solo dei vostri compagni. Vi dovete fidare di loro, se non volete essere inghiottiti dal buio del teatro.”
Alberta ci stava ancora pensando mentre si lavava i denti, prima di andare a dormire. E continuò a pensarci per tutta la notte, rivoltandosi nelle coperte e facendo a botte col cuscino.
“Che figura!” non smetteva di dirsi. “Ma poi, proprio con me doveva prendersela?”
Era andata che il regista (questo era il titolo con il quale si fregiava il tipo che teneva il corso di teatro alla quale aveva deciso senza criterio di partecipare) dopo la tirata sul teatro al buio e sulla fiducia, fatta una rapida ricognizione degli aspiranti attori seduti in cerchio adorante attorno a lui, aveva pensato bene di interpellare proprio Alberta.
Non l’aveva neppure sentito: il terrore di dover un giorno affrontare un pubblico ignoto e ostile l’aveva impietrita nelle membra e annichilita nei pensieri.
“Signorina Alberta – l’aveva ripresa il registra con la sua voce nasale e un po’ isterica – è fra noi? Ci vuole dire qualche cosa, dare un segno della sua presenza?”
Il balbettìo col quale aveva tentato di rispondere aveva fatto scoppiare a ridere tutti gli altri, sciolti dalla tensione di dover rispondere.
“Accidenti a tutti quanti!” fu l’ultimo pensiero di Alberta che, sfinita, cadde alla fine in un sonno profondo e senza sogni.
E sì che l’aveva presa sul serio: mentre beveva il caffè del mattino, gli occhiali appoggiati sul naso, apriva il copione per la prima volta nella giornata e rivedeva quello che aveva imparato la sera prima. Davanti allo specchio, prima di uscire, aggiustandosi la gonna che le sembrava la facesse assomigliare ad un sacco, provava un paio di battute.
In metro, ripassava mentalmente le parole della Nanna, il suo personaggio, tenendo uno sguardo assente sui suoi compagni di viaggio.
Anche la pausa per il pranzo era dedicata allo studio della pièce.
Insomma, tutto si poteva dire ma non che non si stesse impegnando per fare la sua bella figura al corso di recitazione.
Il corso, a dirla tutta, era solo una scusa per dare modo al regista, un cinquantenne senza arte ne’ parte ma con un ego smisurato, di mettere in scena un dramma di quart’ordine che lui stesso aveva composto.
La storia era banale: due sorelle, Alda la bella, Alda la buona che riesce in ogni cosa, compreso un matrimonio d’amore e interesse; Nanna, la zitella acida, refrattaria ad ogni forma di relazione umana che alla fine, per invidia e cattiveria, avvelena la sorella con la quale vive. Nel mezzo una serie di gag che, nell’intenzione dell’autore, avrebbero persino dovuto essere divertenti.
Era sta una cosa pressoché automatica: “Per la parte della Nanna, vediamo, chi potrebbe andare bene? Lei, sì lei. Provi un po’ ad alzarsi e venga qui al centro”.
Così Alberta era diventata Nanna.
Un po’ era soddisfatta, il suo era il ruolo della coprotagonista.
Però…Però a lei non sembrava di avere molte affinità con la sorella cattiva. Sì, sì: l’età era quella di una signorina attempata, l’aria sempre un po’ dimessa era una pennellata di realismo e, bisognava ammetterlo, non era mai stata particolarmente brava nel rapporto con gli altri.
Ma i piedi in testa non li aveva mai messi a nessuno, le dispiaceva far star male le altre persone e così finiva sempre che a fare un passo indietro fosse lei.
“Eh, ma le grandi attrici sanno dare vita a personaggi anche molto diversi da loro” cercava di convincersi Alberta, grattando fra le orecchie il pelo morbido della sua Minnie.
Pensava a questo e così gli passava un po’ il magone per non essere mai lei a venire scelta per i ruoli positivi; era sempre andata così, dalla recita di Natale in quinta elementare, doveva gli era stata data la parte dell’ostessa che sbatte la porta in faccia alla Madonna col pancione ma solo perché per fare Erode ci voleva un maschietto, sino ad oggi.
“E’ veramente perfida!”
Per Alberta quello fu il più bel complimento che si potesse attendere.
“Vedete come riesce a calarsi bene nei panni della Nanna”. Il regista le girava attorno, scrutandola attraverso le spesse lenti dei suoi occhiali. “Si capisce che qui c’è del gran lavoro di immedesimazione.”.
Alberta stava lì in piedi, imbarazzata ma non poteva evitare di cogliere nello sguardo della bellissima, magrissima, altissima, bravissima Pamela, che impersonava Alda, un lampo di invidia.
E ne gioiva intimamente.
“Minnie, cosa c’è che non va?”
La micia aveva appena alzato il capino e subito dopo si era abbandonata sulla stuoia.
“Mi dispiace, signora Alberta” le aveva detto il veterinario, i reni della sua gatta sono compromessi: non la faccia soffrire inutilmente.
Alberta era tornata a casa con il trasportino della sua Minnie vuoto e si sentiva il cuore in pezzi. La sua compagna di tanti anni se ne era andata: si erano guardate negli occhi fino all’ultimo momento. Poi Alberta aveva affondato il volto fra il pelo morbido dell’animale un’ultima volta ed era scappata via dall’ambulatorio.
“E questi, che cosa sono?” Alberta si era abbassata sul pavimento buio della cantina. “Noo! Topi. Ci mancavano i topi ma adesso li aggiusto io.”
Così quella sera, prima di infilarsi al corso di teatro, era passata al consorzio agrario e aveva chiesto qualche cosa per liberarsi dai temuti roditori.
“Usi questa” le aveva detto il venditore dietro il banco allungandole un scatola di bustine “ma segua bene le istruzioni e faccia attenzione: è un veleno.”
“Devi farlo furtivamente. Ricorda: Alda non ti deve vedere, ma il pubblico sì”.
“Provo un’altra volta, se non le dispiace” aveva detto Alberta al regista.
“Ma no, basta!” era sbottata Pamela. “Quante volte è che la rifai ‘sta scena? Cosa ci vorrà mai? Mi volti le spalle e guardi il pubblico, prendi il veleno, lo metti nella tazza, lo sciogli, poi ti volti verso di me e mi dai questo cavolo di tè. Io lo bevo e muoio tra atroci sofferenze. Allora, lo posso provare il mio atto finale? Non è mica così facile fare finta di morire!”
“Basta pensare che si sta morendo davvero” le disse Alberta.
Il pubblico alla fine pareva un po’ annoiato: erano tutti famigliari e conoscenti degli attori in erba e avevano persino riso a qualche battuta, più per cortesia che per convinzione.
Alberta si avvicinò al tavolino di compensato: “Vuoi un po’ di tè, Alda?” “Te ne sarei grata, Nanna”. Pamela parlava stando languidamente sdraiata sul divano: avrebbe dovuto impersonare una Alda ammalata e invece sembrava una provocante entreneuse.
Alberta le girò le spalle, prese la bustina di stricnina e con gesto rapido la vuotò nella bevanda. Mescolò con lentezza studiata mentre faceva qualche passo verso il centro della scena.
“Ma no” sussurrava il regista dalle quinte “devi andare verso Pamela”. Alberta non dava segno di sentirlo, era assorta nel suo ruolo, pareva in trance.
Adesso era sotto il riflettore principale, i suoi piedi erano esattamente sopra la croce di gesso che segnava il mezzo del palcoscenico. Guardò il pubblico. La tazza fra le mani, la alzò in alto, tendendo le magre e bianche braccia: pareva una vestale pronta a chissà quale arcano sacrificio.
Poi d’improvviso rovesciò il contenuto della tazza sul pavimento.
Guardò Alda-Pamela per un attimo e poi di nuovo si volse verso il suo pubblico e disse: “Vedete, non sono poi così cattiva!”
Trovo il racconto interessante, sarebbe una bella idea da sviluppare in modo più approfondito, in un’ opera teatrale o in un libro vero e proprio.