Mi hai solo sfiorato la guancia

Sono passate le otto oramai. Ho sentito arrivare l’ultimo treno e tu non c’eri. Non hai mai fatto così tardi come questa sera. Mi senti proprio quando ritorni. Io, che sono qui tutto il giorno ad aspettare te. Si lo so, hai il lavoro, gli scacchi, e io? Non sono niente per te? Non posso muovermi lo sai. Letto, cucina, la porta sempre aperta, un continuo vagare per far poco o niente. Mi alzo e penso a quando tornerai. Mi avvicino al fornello, preparo il tè e spero di sentire il tuo fischiettare schietto dal vialetto del giardino. E’ tutto quello che posso fare, lo sai. Te l’ho detto o no ieri sera che dovevi comprare un po’ di verdura al mercato! E invece, eccomi qua a perdermi dietro alla stufa ormai fredda. La legna è finita, ho bruciato anche gli ultimi rametti ancora verdi pur di tenerti in caldo la zuppa di rape e riso. Ma oramai, non ho più voglia di aspettarti, figlio mio. Sono così stanca che non so nemmeno come farò a coricarmi. Tu arriverai a tentoni nel buio, non sarebbe la prima volta. Per me fa lo stesso, non saprei nemmeno come aiutarti così come son messa. Buio, luce, non ricordo nemmeno più la differenza. E tu che non arrivi, non arrivi più. Questa mattina ho sentito la vicina. Era tutta così preoccupata per questi, … non ho capito bene cosa sono gli scontri in piazza. Cosa vorrebbe dire che gli studenti protestano, non si è mai usato, non ho mai sentito di studenti che abbiano qualcosa da ridire, ma contro chi poi. Comincino a lavorare e poi ne riparliamo! Protestare in piazza e per chi poi, per me che sono alla fine? No, no di certo. Ti ho sentito sai, anche tu parli di una nuova vita. Ecco si, hai detto proprio “una vita nuova”. Ed eri così felice, così entusiasta che quasi ci ho creduto anch’io, sul momento. Poi ti sei alzato che era ancora mattino presto e come al solito non hai voluto che ti preparassi qualcosa da magiare. Mi hai baciata, mi hai solo sfiorato la guancia, hai detto la solita cosa buffa in inglese e te ne sei uscito in maniche di camicia. Come sempre di corsa, mio Wei Lin.

(Beijīng, 5 Giugno 1989)

ITALO CALVINO E L’IMMAGINAZIONE

Calvino con la figlia Giovanna e ChichitaDopo Truman Capote, riprendo la ricerca dei volti degli autori che hanno inciso a mio giudizio così profondamente nel modo di intendere la letteratura basata sulla sfrenata fantasia e l’immaginazione: Italo Calvino. Non è facile per una persona così schiva come lui aver lasciato tracce di sé così personali. Lo si ritrova qui per un istante a giocare con la figlia Giovanna e la moglie Chichita. Lei li osserva discreta in un salotto degli anni “70.

E a proposito di immaginazione … il momento che più conta per me è quello che precede la lettura. A volte è il titolo che basta ad accendere in me il desiderio di un libro che forse non esiste. Alle volte è l’incipit del libro, le prime frasi… Insomma, se a voi basta poco per mettere in moto l’immaginazione, a me basta ancor meno: la promessa della lettura. Così Calvino fa dire ad un lettore di “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, un entusiasta avido degli sguardi di altri che come lui vagano di fantasia in fantasia ispirate dal fruscio delle pagine di un libro. “Se una notte …” è il romanzo per il lettore distratto, insofferente, indaffarato, ansioso, che non cerca una trama logica e sequenziale che di fatto non c’è nel libro, ma il puro piacere dell’emozione della lettura. Purtroppo, o per fortuna, le forti aspettative create in una stazione non meglio identificata e in un’epoca probabilmente a noi prossima, non vengono mantenute. L’amaro in bocca per l’ennesima storia interrotta non ci da pace, a volte ci sembra di decifrare la trama in qualche paragrafo successivo, ma disperati non possiamo che completarla da soli come in un sogno proseguito nel dormiveglia. Così per dieci capitoli, dieci vicende fulminanti, dici frustrazioni, dieci consolazioni da sogno.

Ciò che il protagonista di “Se una notte …” vive come un incubo e che gli impedisce di essere un onesto lettore desideroso solo di arrivare alla fine del libro è capitato curiosamente anche a me: leggendo la mia copia fresca di stampa, notavo che aveva un sedicesimo [*] ripetuto nelle pagine centrali. Calvino inserisce nel primo capitolo esattamente questo inconveniente che è il primo del suo lettore protagonista. Senza spiegazioni plausibili, anche la mia copia aveva lo stesso problema. Il mio sospetto era lecito, … vuoi che non l’abbiano fatto apposta? Il timore di chiarirlo col libraio mi ha sopraffatto. Lui mi ha liquidato con un sorriso malizioso: «Ma lei lo vuole cambiare perché le pagine hanno tutte un’ammaccatura su quel sedicesimo (un orecchio come dico io), o perché c’è un errore di stampa?». Già quale dei due? Alla fine ho scambiato la mia con una copia intonsa e senza difetti d’impaginazione. Così facendo però, e me ne sono reso conto subito dopo, ho perso la prova provata che il romanzo difettoso esiste, che l’autore possa andare oltre l’editore o meglio del protagonista del romanzo che si perde nei meandri di dieci incipit senza una fine. Del resto, il titolo è un inganno fin dall’inizio. “Se una notte…” non è il titolo giusto, è solo il nome del primo capitolo. Quello corretto potrebbe suonare come: ABITUATI a PERDERTI (il finale).


[*] “Un libro è fatto di «sedicesimi»; ogni sedicesimo è un grande foglio su cui vengono stampate sedici pagine e viene ripiegato in otto; quando si rilegano insieme i sedicesimi può capitare che in una copia vadano a finire due sedicesimi uguali; è un incidente che ogni tanto succede.“ Italo Calvino – Se una notte d’inverno un viaggiatore – Oscar Mondatori 2003

PASSATO – FUTURO – IDENTITA’ (3/3)

Segue da PASSATO – FUTURO – IDENTITA’ (2/3)

Alla voce sentimenti: Aharon Markus era un autodidatta, che da sé aveva imparato sei lingue (tra cui l’arabo e lo spagnolo); amava la musica classica, e i l suo hobby era copiare partiture per i l Teatro dell’Opera di Varsavia. … Era un uomo dall’animo delicato, elegante e accurato nel vestire. Fino allo scoppio della guerra usava portare un garofano all’occhiello. (Nel risvolto interno del bavero della sua giacca era cucito un piccolo ditale di stagno, che il  farmacista teneva sempre pieno d’acqua per il gambo del fiore.) … In quel periodo l’ex farmacista aveva cominciato – non si sa per quale sua personale ragione – a eseguire i suoi estenuanti esperimenti sul sentimento umano. Aveva disegnato dapprima una mappa in cui aveva annotato a uno a uno tutti i sentimenti umani conosciuti, aveva catalogato quei sentimenti dividendoli per categorie, ne aveva espurgato i sinonimi descriventi, in pratica, uno stesso sentimento, aveva diviso la lista in “sentimenti mentali” (cioè del cervello) e “sentimenti cordiali” (cioè “del cuore”, “dell’anima”), e poi in sentimenti “primari” e “secondari”. Poi aveva cominciato a seguire attentamente se stesso e i suoi pochi amici, con l’intenzione di individuare i sentimenti più “attivi”, cioè i sentimenti che hanno maggiore influenza sull’anima umana. … «Con grande commozione eccomi ad annotare quanto segue: si sappia che tra “timore” e “terrore” ho scoperto e definito e denominato altre sette sfumature di sentimento, più o meno forti ma tutte, senza dubbio alcuno, “sentimenti primari”» … Aharon Markus cominciò a effettuare incroci tra sentimenti che fino ad allora erano considerati del tutto diversi, perfino nemici. Quell’uomo che tra sé e sé si era affibbiato, con superba modestia, l’appellativo di “astronauta del sentimento”, tentò di accoppiare, per esempio, il timore con la speranza; o la malinconia col desiderio nostalgico; facendo ciò, a quanto pare, cercava il modo di introdurre in ogni sentimento spiacevole, dannoso e rovinoso, il seme del suo stesso superamento. Della salvezza da se stesso … «E ciò fece, il nostro Markus, con una strana fretta, quasi il tempo stringesse… e suo desiderio era di moderare la malvagità, di ammorbidirla, di calmarla, di infettarla con i microbi ragionevoli e tristi della sofferenza, e chi mai potrà capire l’animo di un artista?…».

(David Grossman – Vedi alla voce: amore – 1986)

Il fatto che l’arte israeliana sia diventata sensibile “al dolore degli altri”, testimonia che possiede un nucleo e un impegno umanistici. Non richiedendo l’esclusività per il loro lutto, gli Israeliani dimostrano di riconoscere che è inclusivo, e di avere a cuore i valori di vita e pace in modo più profondo che mai.

(Hannah Naveh – Esiste un luogo – 2009)

L’identità: multi-etnicità, la diversità, il militarismo, il conflitto, che sarà di noi?

Durar Bacri - Autoritratto con capra (2006)Durar Bacri, un giovane artista arabo di Acco, proviene da una grande famiglia le cui radici in Israele risalgono a 600 anni fa. I suoi quadri affrontano questioni riguardanti la sua identità e stile di vita in quanto arabo che vive nello stato ebraico in cui è nato. Da un lato Bacri cerca di integrarsi nella vita culturale, dall’altro ha premura di onorare e ricordare le sue radici arabe e l’affiliazione con la cultura araba. Spiega l’artista: “lo sono il vero straniero, colpito da stigma e pregiudizi, ma al tempo stesso vivo con sicurezza e orgoglio nella terra dei miei antenati”. Attraverso le sue opere Bacri cerca di raffigurare l’arabo moderno, rappresentandolo così come lo vede l’artista: “attraente, sexy, che domina il paesaggio circostante”. Spiega Bacri: “Al fine di dimostrare che un arabo è in grado di utilizzare le tecniche della tradizione europea, dipingo quadri a olio di grandi dimensioni, senza cercare di ottenere la finitura realistica di un’immagine fotografica”. Grazie a un’illuminazione scenografica e a pennellate piatte, con netti contrasti di luci e ombre, Bacri crea un collegamento fra lo stile europeo e lo stile arabo tradizionale, alterando cosi la realtà: “Cerco di contaminare la realtà e di ricavarne qualcosa di nuovo”.

Muro di protezione, quartiere di Gito, Gerusalemme (2004)Lo spettacolo delle romantiche distese naturali delle fotografie di paesaggio di Shai Kremer catturano lo spettatore con la loro bellezza. Nei suoi lavori riecheggia la sensazione di nostalgia per le sublimi descrizioni paesaggistiche del Diciannovesimo e Ventesimo secolo, destinate a creare un senso di appartenenza alla Terra d’Israele. Solo a un secondo sguardo si nota che bellezza e nostalgia sono stratagemmi per attrarre l’attenzione sulla distruzione del paesaggio causata dal conflitto arabo-israeliano e dalla continua guerra contro il terrorismo. “La bellezza è uno strumento di grande potenza” afferma Kremer, che condivide l’idea espressa dal fotografo americano Richard Misrach: “La bellezza è un veicolo per comunicare idee complesse”. L’autore prosegue poi: “Credo che ci si debba distanziare un po’, e creare delle composizioni molto seducenti, esteticamente forti, per spingere lo spettatore a soffermarsi e a osservare, in modo che, quando il colpo arriva, risulti in qualche modo attutito”. Nella fotografia “Muro di protezione, quartiere di Gito”, Gerusalemme, 2004. Kremer documenta un tratto dipinto della Barriera di separazione che divide il quartiere gerosolimitano di Gilo dalle zone palestinesi. I graffiti, probabilmente dipinti da nuovi immigranti arrivati dalla Russia con l’intenzione di ammorbidire la brutalità del muro di cemento, non riescono ad alleggerire la sensazione di soffocamento che esso produce. Il contrasto con il tratto panoramico al suo fianco, dove dalla terra rocciosa spunta un cipresso e all’orizzonte s’intravedono le case del villaggio palestinese di Beit Jalla, accresce la sensazione di opportunità mancata causata dalla guerra. L’opera di Kremer mette in guardia dal trasformare i resti della guerra in un elemento permanente nella vita degli uomini, e invita lo spettatore a meditare sugli effetti a lungo termine della violenza prolungata.

Checkpoint di Qalqilya (2002)Pavel Wolberg ha iniziato come fotografo d’arte e solo successivamente è passato a occuparsi di eventi di attualità, registrando la realtà israeliana in molti luoghi ed eventi diversi. Egli cattura le figure in “istantanee fugaci”; il suo obiettivo illustra l’inaspettato e permette ai nostri sensi di confrontarsi con scene divenute ormai insignificanti a causa del continuo contatto quotidiano: il conflitto israelo-palestinese, la seconda guerra del Libano, il muro di separazione, i rapporti fra laici e religiosi, le esperienze caratteristiche delle strade di Tel Aviv, i pellegrinaggi in Terra Santa e così via. “Ho molte critiche da fare a com’è il mondo”, spiega Wolberg. “Non posso osservarlo e dire: ‘È così che dovrebbe essere. Il mondo va bene’. Mi piace scoprire le cose che non vanno bene e mostrarle agli altri. L’opera “Checkpoint di Qalqilya” (2002), per esempio, illustra un incontro di routine fra un soldato israeliano e una donna palestinese in un punto di passaggio del confine durante un coprifuoco in quell’anno. Wolberg è riuscito a catturare l’intimità di un momento imposto alle due persone dalla realtà. Il soldato, con il fucile in mano, guarda la giovane donna che gli sorride in modo diretto. I fasci di luce che cadono sul viso della donna enfatizzano ulteriormente la sua presenza. Niente, nel linguaggio corporeo della donna, fa pensare che essa si ritragga o che eviti il soldato, e il suo sorriso resta prudente. Indica forse un appello, una richiesta, una reazione a qualcosa che i due si sono detti? L’uniforme del soldato, il calcio del fucile, l’abito modesto della giovane donna e persino i cavi elettrici sullo sfondo portano a una certa interpretazione dell’insieme qui rappresentato, insieme che – se il contesto fosse stato diverso – avrebbe potuto dare un’impressione molto diversa. Inevitabilmente, nell’ambito della copertura degli eventi di attualità di rilievo, le fotografie di Wolberg includono spesso viste diverse di soldati, alcune delle quali risultano sorprendenti.

PASSATO – FUTURO – IDENTITA’ (2/3)

Segue da PASSATO – FUTURO – IDENTITA’  (1/3)

Integralismo, rifiuto del cambiamento, ideale di passato, fierezza. Ci si potrebbe aspettare di trovare nelle opere d’arte contemporanee i riflessi di una tragedia immane, di disperazione e di rovina. In parte questo è tangibile. Ma se di tragedia si può parlare, questa è la disperazione e la rovina dovuta al continuo stato di allerta per il conflitto in atto. Si è consci del passato, mentre il futuro sembra derivare da un presente dilatato di positività, ma non di ottimismo.

Riprendiamo come spunti di indagine e riflessione alcuni esempi di artisti israeliani contemporanei che non costituiscono di certo la globalità dell’arte di questo popolo, ma forse ne delineano i tratti interessanti e distintivi.

Il futuro: il mito del soldato, la bellezza della gioventù, la prospettiva

Nir Hod - Gioventù perduta (2003)Nell’opera “Gioventù perduta”, Nir Hod raffigura un funerale militare. Il dipinto, prodotto direttamente da una fotografia di giornale raffigura un gruppo di giovani soldati visti attraverso il centro di una corona funebre di grandi dimensioni. La bara del compagno morto, anche se non è visibile nel quadro, è indicata dalla presenza dei fiori e dei soldati che fanno il saluto militare. Le opere di Nir Hod sono dominate da immagini di giovani bellissimi circondati da fiori altrettanto belli in vari stadi della fioritura, creando così un evidente collegamento fra bellezza, gioventù e morte. Questa predominanza chiarisce che non è solo il dolore a essere traumatico, ma anche la bellezza ad esso collegata. “Il quadro del funerale è un passaggio alla politica”, spiega Hod. “Si tratta di un funerale universale che commemora tutti i giovani, soldati di entrambi i sessi, chiunque essi siano”.

Trembling Time (2001)Yael Bartana è una videoartista la cui famiglia è profondamente radicata in Israele. Le sue opere indagano gli aspetti sociali, militari e nazionali della società israeliana che contribuiscono a formarne l’identità. Il suo lavoro Trembling Time (2001), descrive il rituale suono della sirena che segnala l’inizio del giorno dedicato alla memoria dei soldati caduti nelle guerre d’Israele. Ogni anno, il giorno 4 del mese di lyar del calendario ebraico, alle otto di sera, in tutto il paese risuona per un minuto una sirena che annuncia l’inizio del giorno della memoria dei caduti. La sirena costituisce una particolare consuetudine nazionale israeliana, che si è sviluppata dopo la fondazione dello stato ed è formalizzata da una legge. Essenzialmente è un segnale, che per un preciso lasso di tempo strappa al fluire regolare della vita i cittadini israeliani: tutti interrompono all’istante le loro occupazioni per bloccarsi sull’attenti a testa china; solo l’urlo della sirena taglia il silenzio. Per un minuto l’individuo e lo stato si fondono, uniti nel lutto nazionale. Non appena la sirena cessa, ognuno ritorna alle proprie occupazioni.

Shirat Ha-Yam, Il canto del mare (2005)Osservando le fotografie panoramiche di grandi dimensioni di Barry Frydiender, l’occhio vaga senza fermarsi in un singolo punto. Qui non si tratta del solito, rapido, sguardo sufficiente per una fotografia; è necessaria un’osservazione che richiede una lunga sosta di fronte all’opera. I lavori sono costituiti da decine di fotografie scattate in orari e giorni diversi, con fotografo e macchina fotografica in movimento, con l’obbiettivo esposto per tempi diversi, successivamente montate ed elaborate digitalmente. Il prodotto finale sono composizioni ricche di dettagli, che rappresentano il soggetto – luogo o persone che siano – con straordinaria eleganza, ben superiore all’immediato e al concreto dato reale. “Shirat Ha-Yam”, (Il canto del mare) del 2005, è il nome di un piccolo insediamento costiero nel sud della Striscia di Gaza, che è stato evacuato durante il ritiro israeliano da Gaza nell’agosto 2005. Frydiender si è recato sul posto per documentare l’evento “Volevo essere presente all’inizio, proprio nel momento della fine dell’occupazione”, ha commentato. Nella fotografia si vedono il piccolo insediamento e suoi abitanti circondati dai soldati. I militari sono schierati a semicerchio, in perfetto ordine, mentre gli abitanti sembrano spinti verso l’acqua; questa volta non più dagli egiziani, come nel caso dell’Esodo biblico, bensì da soldati israeliani.

A seguire

PASSATO – FUTURO – IDENTITA’ (1/3)

bambiniQuella di Israele è storia di un popolo che in modo per lo più inspiegabile, è sopravvissuto a condizioni nelle quali ogni altra minoranza si è dispersa, disciolta all’interno della società dominante che la ospitava. (Giorgio Tavani – Israele, una storia d’amore – Nov.2013)

Le ragioni di questa coesione e resistenza alle forze centrifughe sono certamente intuibili seguendo il filo logico che intreccia storia a narrazione senza però comprenderne i risvolti più intimi. Gli elementi che hanno fatto da collante per questo popolo, a noi così distante ma per certi versi così prossimo, sono registrate in fatti, scritti, monumenti, oggetti, ma nello stesso tempo, e forse molto meglio, nelle emozioni degli individui che lo compongono.

Cosa distingue gli israeliani dalle altre nazioni? A questa domanda, quasi tutti risponderebbero che il tipico israeliano è veramente un tipo particolare. Naturalmente molti elementi distintivi israeliani hanno origine nella tradizione, nella storia e nella cultura degli ebrei, ma molti altri sono unici e assai distanti dalle caratteristiche degli ebrei della diaspora.  (Oz Almog – Il genoma Sabra nella mentalità israeliana – 2009) 

Una risposta, o meglio un tentativo di capire, ci è data da un angolo di visuale molto particolare, l’arte figurativa,  che in modo privilegiato espone al nostro senso più intuitivo, la vista, quanto di meglio l’animo umano è in grado di sintetizzare.  Alcune considerazioni preliminari ci aiutano ad inquadrare i fatti. Sono tratte da un saggio di Naomi Aviv, curatrice indipendente dell’arte contemporanea a Tel Aviv, Israele, pubblicato in occasione della mostra “AS IS”, tenuta nel Complesso del Vittoriano a Roma nel 2009-2010 a cura di Ruth Cats. 

La breve storia dell’arte israeliana inizia nel 1906, con la fondazione di Bezalel, la prima Accademia di Arte e Design a Gerusalemme. Gli insegnanti dell’Accademia erano immigrati che portavano con sé l’influenza artistica dei diversi paesi di provenienza, soprattutto europei. La loro visione della nuova terra natale nel cuore del medio Oriente era edulcorata, le loro opere raccontavano ed descrivevano i luoghi, i panorami, gli abitanti e i pionieri che costruivano il paese. Nel 1948, data di fondazione dello stato d’Israele, si costituisce il gruppo Ofakim Chadasim, “Nuovi orizzonti”, unito dalla convinzione che fosse necessario prendere le distanze dalla politica per creare un’arte caratterizzata ed indipendente. Negli anni Sessanta l’arte Israeliana passa dall’astrattismo lirico, con la sua inclinazione alla rappresentazione concreta di un luogo fisico, all’astrattismo “assoluto”, incentrato sul tempo della pittura, o sulla materia concreta della quale è fatta l’opera d’arte. La tendenza concettuale si estende negli anni Settanta, quando tematiche come il “luogo” acquisiscono significati diversi, legati alla terra, al confine, alla rappresentazione di sé ma anche a idee metafisiche, spirituali e metaforiche sul “non-luogo” e sulla “impossibilità del luogo” intesa come concezione tradizionale ebraica, profonda e mitica. “Dio è una sorta di luogo senza luogo, è ovunque, intorno a noi, nonostante non si trovi in nessun posto”. Quella che ancora oggi è definita Arte di Eretz Israel (La Terra di Israele) era la rappresentazione esotica, affascinante dell’oriente, popolata da immagini di arabi in abiti tradizionali, di donne arabe in cammino tra i frutteti con un’anfora d’acqua in testa. Gli anni Ottanta, definiti come Il tempo del post, allusione al passaggio da tardo modernismo al post-modernismo, in Israele come in tutto il mondo occidentale, sono caratterizzati da tematiche che ne riflettono l’epoca, in primis il processo di logoramento dei grandiosi slogan sionisti e la disintegrazione del sogno di solidarietà e lo stabilirsi di un’ironia disfattista. “Alla fine si muore: arte giovane negli anni Novanta in Israele” è il titolo di una mostra imperniata sui reportage giornalisti e fotografici delle aberrazioni dell’occupazione. E’ degli anni iniziali del secondo millennio la comparsa di tutti i mezzi d’espressione e un numero notevole di artisti che sono riusciti ad “oltrepassare i confini del paese”. Lo sguardo si rivolge all’esterno, alla scena internazionale, e sono meno numerosi i riferimenti al “qui e ora” politico.

Esiste un’arte israeliana? Che caratteristiche ha? È legittimo chiedersi se esiste? Non è una questione viziosa, etichettare come nazionale una creazione che per sua natura dovrebbe essere puramente individuale? Anche l’arte italiana, per esempio, soffre di complessi simili? E la tedesca? La francese? Il dissenso sulla questione dell’identità dell’arte israeliana non è separabile dal dilemma riguardante il luogo e l’inquietudine generata negli israeliani dal non sentirsi sicuri nel proprio paese. Sradicamento, immigrazione ed emigrazione, integrazione, distacco dal luogo di provenienza e necessità di inserirsi nel luogo utopico (utopia è proprio il non-luogo) in cui si arriva, il problema di restare fedeli alla cultura di origine o piuttosto di adottare la versione locale di un posto che è stato, che è, e che sarà.

Non esiste un’arte israeliana. Esiste un’arte prodotta da artisti israeliani, una buona arte,  questo lo ammettono tutti, e giustamente. Ciò ci riporta all’annosa questione di “chi è ebreo?”, che per quasi tutta l’esistenza dello stato d’Israele, quando i precetti religiosi hanno perso il ruolo di legge per buona parte del popolo ebraico, è stata lo scottante pomo della discordia. Le risposte dividevano gli israeliani in due gruppi: quanti ritenevano che fosse ebreo chi è nato da madre ebrea o si è convertito secondo il rito ortodosso, e chi, invece, considerava ebreo chi aveva scelto di far parte del popolo ebraico. Con il passare del tempo, la disputa si è affievolita e si è definita in questo modo: i religiosi continuano a difendere strenuamente la prima tesi, mentre la maggioranza dei laici sostengono la seconda. E chi è un artista israeliano? Artista israeliano è chi sceglie di definirsi tale, anche se vive da trenta o quarant’anni a Londra o a New York, purché sia un artista valido…

Come puro tentativo di avvicinamento alla comprensione e non certo in modo esaustivo e completo, è possibile affrontare la questione secondo tre temi fondamentali rappresentati nell’arte figurativa contemporanea: il passato, il futuro, l’identità.

Il Passato: il Sionismo, la tradizione, la memoria, l’oblio

Hila Karabelnikov - Mea Shearim II (2007)Hila Karabelnikov ritrae il quartiere ultraortodosso più estremo di Gerusalemme, un quartiere praticamente separato dalla vita e cultura israeliana, in cui i residenti continuano a vivere come negli antichi “shteti” (i villaggi ebraici dell’Europa orientale) delle terre dei loro antenati, nell’attesa del Messia che deve redimere il popolo ebraico. L’opera ha come tema la festività di Succot, come indicato dagli uomini che indossano soprabiti estivi di colore chiaro, che contrastano nettamente con gli indumenti scuri di ogni giorno, e anche dalla Succah (la capanna) che si erge dietro di essi. Si tratta di una visione estremamente personale; all’epoca della creazione dell’opera, il fratello dell’artista giaceva paralizzato, in stato di incoscienza, in un letto d’ospedale, pochi giorni prima di morire. Questo elemento spiega l’aspetto serio delle figure, alcune delle quali guardano in avanti mentre altre fissano in modo inespressivo gli spettatori. All’estrema destra appare un ritratto dell’artista, incompiuto, dietro a un poster (del tipo noto come pashkevil’) che invita a rispettare l’obbligo di vestirsi in modo pudico. Il modo di vestirsi dell’artista, però, non è per niente pudico, bensì vistoso se non addirittura provocante. È questo il suo modo di esprimere il suo grande dolore e la rabbia di fronte all’amaro destino del fratello e di mettere in discussione l’importanza di un abbigliamento pudico, e addirittura l’esistenza stessa di tali imposizioni religiose, in un simile momento della propria vita.

Elie Shamir - Ninna Nanna per la valle (2008)Elie Shamir è nato e cresciuto a Kfar Yehoshua, un moshav (comunità agricola cooperativa composta da fattorie indipendenti) nella valle di JezreeI, luogo che simbolizza al meglio la realizzazione del sogno sionista e contemporaneamente evidenzia con la massima chiarezza i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni nella società israeliana. Il mutamento più rilevante è il passaggio dal lavoro collettivo, manuale, alle attività commerciali private, prevalentemente nel campo dell’hightech. Kefar Yehoshua ha formato ElieShamir come persona e come artista. La relazione ambivalente col posto in cui è nato si riflette nei suoi lavori, in cui l’artista riesamina il proprio ambiente e il proprio posto al suo interno. Riconsidera i valori mitici secondo i quali è stato cresciuto, rimettendo in gioco il senso di appartenenza verso la casa e la terra della sua infanzia. Nell’opera “Ninna Nanna per la valle”, Shamir definisce la propria esistenza ebraica e identità israeliana contrapponendole a tematiche cristiane e alla tradizione artistica europea. Nella composizione – un coro di cantanti accompagnati da un vecchio pioniere seduto che suona la fisarmonica – , Shamir dipinge gli aridi, spogli campi di Kefar Yehoshua. Il coro di Shamir sta cantando La canzone della valle, del poeta israeliano Nathan Alterman, una ninna nanna che descrive i generosi sacrifici dei primi pionieri della valle che hanno reso fertile una terra desertica. Per loro, il lavoro agricolo era la nuova religione, a cui solamente i nuovi ebrei dovevano dedicarsi. L’opinione realistica, dolorosa e critica di Shamir riguardo ai cambiamenti in atto nella società israeliana trapela chiaramente dalla messa in scena artificiale e sgraziata della composizione, che sfida e sovverte il tema dell’adorazione della Natività. Le donne del coro a prima vista sembrerebbero figlie della generazione dei pionieri sionisti, prova vivente del loro successo, intente a cantarne le lodi, ma la visione di trionfante fiducia è scalfita dalla presenza di una donna tailandese, giunta al moshav come lavoratrice straniera ed ora assimilata nella società israeliana. Di tutto il gruppo, è lei l’unica che canta di cuore, orgogliosa, e così facendo esemplifica il processo iniziato dopo la guerra dei Sei Giorni, quando i lavori più umili sono stati trasferiti dagli israeliani ai palestinesi, e poi ai lavoratori  immigrati. Il ritratto delle altre cantanti trasmette ansia. Una abbassa lo sguardo e si stringe le mani in un gesto di apprensione ed incertezza, mentre tutti gli altri, compreso il suonatore di fisarmonica, distanti e distaccati, si esibiscono meccanicamente. Esprimono così l’angoscia esistenziale di Shamir per il futuro della sua patria. La sua ninna nanna è una nenia funebre, o una canzone che accompagna la valle in un sano riposo, dal quale emergerà ringiovanita e pronta ad affrontare le sfide di un futuro mutevole ed incerto.

Vardi Kahana - Tre sorelle (1992)La formazione giornalistica  ha insegnato a Vardi Kahana a catturare il momento e documentare lo spirito dell’epoca (l’air du temps). Il suo istinto le ha poi permesso di riconoscere l’aspetto pan-umanistico della storia della sua famiglia e di partire per un lungo viaggio meditativo nella grande saga della sua vicenda familiare. Il progetto di Kahana, Una famiglia, comprende quasi cento fotografie in cui l’artista segue con discrezione le tracce del rinnovamento della sua famiglia nel periodo successivo all’Olocausto, presentando una dinastia che si estende per quattro generazioni e tre continenti. I potenti ed eloquenti ritratti dei membri della famiglia, che rimandano a momenti centrali delle loro vite, sono scattati nel loro ambiente; in tal modo l’artista sintetizza il ritorno del popolo ebraico e lo sviluppo di Israele in una nazione. Durante il lavoro, Kahana s’imbatte in questioni, domande e dilemmi di grande attualità: la “purezza delle armi”, il lutto, gli insediamenti ebraici nei territori occupati, la tensione fra arabi ed ebrei a Gerusalemme est, il presente e il futuro della vita nel kibbutz, l’ortodossia e il laicismo. Il viaggio personale di Kahana attraverso la cinquantina di nuclei familiari che compongono la sua famiglia allargata riflette la varietà dei modi di vivere degli israeliani. La scelta del ritratto, forma tradizionale di descrizione preferita per la capacità di sintetizzare la personalità dei modelli preservandone l’essenza fisica, risveglia in chi guarda, abituato a questa modalità di rappresentazione, un senso di familiarità. Lo spettatore è invitato a stabilire un legame con la propria famiglia in modo personale ed estremamente intimo. La fotografia in bianco e nero lo riporta indietro nel tempo, ad un’era meno tecnologica, e impregna il lavoro di Kahana di nostalgia. “Tre sorelle” presenta l’origine della grande famiglia di Kahana: sua madre e le sue due sorelle, tutte e tre sopravvissute all’Olocausto. Gli agghiaccianti numeri consecutivi tatuati sul braccio di ciascuna testimoniano l’ordine con cui sono state registrate ad Auschwitz. Lo sguardo fiero, rivolto all’obiettivo della loro figlia e nipote, rivela la forza che le ha sostenute durante la catastrofe e che le contraddistingue ancora oggi.

A seguire

UN POPOLO, UNA STORIA D’AMORE

Reuven Rubin - The Sea of Galilee - 1926-28

Reuven Rubin – The Sea of Galilee – 1926-28

Di solito un conflitto tra popoli ci coinvolge emotivamente e se dura da decenni, o meglio da secoli, la domanda è una sola: perché?

Differenze culturali, scontri sociali, problemi oggettivi, si concretizzano in forti contrapposizioni tra amore e odio, valore e distruzione, integrazione e separazione. Su queste è ancora più urgente il “capire”.

Da questa settimana Giorgio Tavani propone alcune riflessioni su quanto conosciamo del Popolo d’Israele attraverso una lettura critica della sua storia e dei suoi miti. “… Israele è una storia da raccontare, al di là di “quel che si sa” e di “quel che si dice”, con verità, disincanto e inquieto amore”.

Su questo blog, viceversa, chi vorrà potrà contribuire alla discussione affrontando l’argomento da un altro punto di vista: conoscere un popolo attraverso  le arti figurative, la letteratura e la musica.

Di volta in volta, avremo la possibilità di incrociare riferimenti storici, sociali, religiosi con una loro lettura trasversale fatta di pitture, sculture, architetture, fotografie, cinema, … Almeno ci proviamo.

Per maggiori dettagli e iscrizione ai corsi:

–  La scheda del corso

–  Unitre: G75 – ISRAELE, UNA STORIA D’AMORE

–  Varese Corsi: 21- ISRAELE, UNA STORIA D’AMORE

Truman Capote

Uliano Lucas - Lo scrittore Truman Capote durante una visita a Giovanni Agnelli, Torino

Spesso gli autori che preferiamo rimangono nella nostra immaginazione solo come dei nomi fino a quando ci imbattiamo in una loro immagine. Ancora più sorprendente è il fatto che, se protagonisti di film famosi, diventino delle icone attraverso i volti degli attori che li hanno interpretati. E’ il caso di Truman Capote la cui vita ha avuto addirittura ben due rappresentazioni in “Truman Capote – A sangue freddo” del 2005 con Philip Seymour Hoffman e “Infamous – Una pessima reputazione” del 2006 con Toby Jones. Nella finzione, la somiglianza dei due attori è in entrambi i casi notevole. La bravura degli interpreti in questo caso non ci delude nell’incontro con la persona reale degli archivi fotografici o delle interviste rilasciate alla televisione.

Copote, per la sua popolarità negli ambienti intellettuali e mondani degli anni del dopoguerra, viene a contatto con il jet set di New York divenendo ben presto amico di personalità come Jackie Kennedy, Humphrey Bogart, Ronald Reagan, Andy Warhol. Non è un caso dunque che abbia conosciuto Gianni e Marella Agnelli tra l’America  e qualche yacht nel mediterraneo. Il ruolo di Marella in Infamous è interpretato dall’attrice Isabella Rossellini che trasferisce nella vicenda la reale amicizia con Capote. E’ di quel periodo  (1966) la foto di Uliano Lucas scattata in occasione di una visita di Capote agli Agnelli a Torino.

La stessa ironia dei personaggi di Preghiere esaudite, L’arpa d’erba, … la troviamo sfumata anche in Capote dal vivo. «La melanconia viene perché si diventa grassi o perché piove da troppo tempo. Si è tristi, ecco tutto. Ma le paturnie sono orribili. Si ha paura, si suda maledettamente, ma non si sa di che cosa si ha paura. Si sa che sta per capitare qualcosa di brutto, ma non si sa che cosa. Avete mai provato niente di simile?» da Colazione da Tiffany (1959).

FRA LA VIA EMILIA E IL WEST

Dorothea Lange - Profughi scampati alla siccità nell'Oklahoma (1936)

Dorothea Lange – Profughi scampati alla siccità nell’Oklahoma (1936)

Il gruppo aNobii dal nome pretenzioso di “Americana contemporanea”, lo conferma da anni come il miglior romanzo americano moderno, quello da tenere sul comodino per intenderci. Furore di John Steinbeck è l’odissea della famiglia Joad che percorre la “Route 66” verso un miraggio, il west delle dolci vallate degli alberi da frutta. L’ottimismo di Tom, Al, del babbo e soprattutto di mamma si scontra con l’insormontabile muro della miseria più nera che toglie il respiro ed ogni speranza di futuro. Ma una scintilla, un men che minimo impulso di sopravvivenza, fa loro tenere ancora alta la testa. Dove possiamo cercare le radici della crisi nella nostra via Emilia?

… Il babbo aveva fatto un’ipoteca, e ora la banca esige la terra. La società immobiliare, ossia l’ipotecaria banca usuraia, ha bisogno di trattrici, non di coloni. La trattrice è un male? È ingiusta, illegittima, la forza meccanica che coltiva la terra? Dipende. Se la trattrice è nostra, non mia, ma nostra, è un bene. Se la nostra trattrice coltiva la terra, non la mia terra, ma la nostra, è un bene. La potremmo amare come prima amavamo la terra quando era nostra. Ma la trattrice fa due cose: coltiva la terra, e a noi dà lo sfratto. C’è ben poca differenza tra questa trattrice e il carro armato. Entrambi spaventano ledono calpestano le masse. E questo è un pensiero che merita riflessione. Un uomo  spodestato, una famiglia sul lastrico, un catenaccio rugginoso che scricchiola sullo stradone che conduce nel West. Io ho perso il mio pezzo di terra; me l’ha preso la trattrice. Sono rovinato, solo, esterrefatto. E la notte la famiglia s’attenda sulla proda del fosso; e un’altra famiglia arriva e rizza la tenda. I due nomini s’accoccolano sui talloni, e le donne e i bambini stanno ad ascoltare. Il nodo è qui, o voi che avete paura del mutamento in atto, che tremate all’idea d’una rivoluzione! Impedire, impedire dovete a tutti i costi, che i due spodestati s’accoccolino l’uno accanto all’altro. Instillare in ciascuno di loro l’odio reciproco, la paura, la diffidenza. Perché allora non si tratta più di “Io ho perso il mio pezzo di terra.” La cellula si biparte e genera quel “Noi abbiamo perso il nostro pezzo di terra” che v’illividisce. Qui è il pericolo: perché due uomini insieme sono sempre meno perplessi di un individuo solo. E da questo primo “noi” trae origine un altro, e maggiore, pericolo, che è rappresentato dalla somma dei due termini “Ho qualcosa da mangiare” e “Non ho da mangiare.” Se il totale dà “Abbiamo qualcosa da mangiare,” la valanga si avvia, il movimento prende una direzione. Ora basta una piccola moltiplicazione per far si che questa terra e questa trattrice diventino nostre. Questo il quadro: due uomini accoccolati sull’orlo della strada, il miserabile fuoco sotto la pentola comune, la pancetta che frigge in una padella sola, le tacite donne dagli sguardi pietrificati, e i marmocchi intenti a parole che i loro cervelli non intendono. Si fa notte, il bambino ha freddo: ecco, prendi questa coperta, è di lana, era di mia madre, tienila per il bambino. Questo l’obiettivo che dovete bombardare: questa transizione dall’“io” al “noi”. Se voi, che possedete le cose che le masse hanno bisogno assoluto di detenere, poteste rendervi conto di questa realtà, allora sareste in grado di salvarvi. Se foste capaci di distinguere le cause dagli effetti, di persuadervi che Paine, Marx, Jefferson, Lenin furono effetti e non cause, allora potreste sopravvivere. Ma non ne siete assolutamente capaci. Perché il possesso vi congela in altrettanti “io” e vi aliena i “noi”. Gli stati del West sono nervosi sotto il mutamento in atto. Il bisogno origina l’idea, e l’idea stimola l’azione. Mezzo milione di persone erranti per il paese; un altro milione ancora ferme ma pronte a muoversi; altri dieci milioni che cominciano ad agitarsi. E le trattrici insensibili coltivano le terre deserte. …

OMAGGIO A GABRIELE BASILICO

“La città era semideserta e un vento straordinariamente energico aveva ripulito l’orizzonte (…). Per la prima volta ho ‘visto’ le strade e le facciate delle fabbriche stagliarsi nitide e isolate su un cielo inaspettatamente blu, dove la visione consueta diventava improvvisamente inusuale. Ho visto così, come se non l’avessi mai visto prima, un lembo di città senza il movimento quotidiano, senza le auto parcheggiate, senza gente, senza rumori. Ho visto l’architettura riproporsi, filtrata dalla luce, in modo scenografico e monumentale. (…) Il mio rapporto di fotografo con lo spazio urbano e l’architettura (…) si è arricchito di nuovi elementi emozionali fino a ricomporsi, nella pratica del fotografare, in una serie di atteggiamenti costanti come codici visivi che spontaneamente si ripetono, generando una sorta di alfabeto)…)”.

(Cinisello Balsamo – MI, Museo di Fotografia Contemporanea – Fino al 6 Ottobre 2013)

RAFFAELE CIRIELLO: CARTOLINE DALL’INFERNO

GERUSALEMME – «Venite, hanno sparato a un fotografo italiano!». La corsa muta nelle strade svuotate di Ramallah. Il capo della sicurezza di Arafat che ci aspettava davanti all’ospedale, la pistola in pugno: «L’abbiamo portato di sopra…». Quel tavolo del pronto soccorso, i medici che spiegavano: «Sei colpi, niente da fare…». Il neon tremulo, i sacchi di sabbia, gli spari tutt’intorno. Le trattative con gl’israeliani per portarlo fuori. La perquisizione dell’ambulanza. La sosta all’albergo dove aveva dormito l’ultima notte, per riprendere veloci lo zaino e le macchine fotografiche. E poi la veglia lunga, incredula, in una cripta di Gerusalemme. E l’aereo che di notte venne a prenderlo dall’Italia. E Paola, la moglie, faccia bianca e occhi asciutti nel buio dell’aeroporto. E dietro Carlo Verdelli, il vicedirettore del Corriere, ancora più pallido…

(Francesco Battistini Corriere della Sera, 13 marzo 2012)

RAFFAELE CIRIELLO Venosa 1959 – Ramallah 2002. Nato in Basilicata, ma milanese di adozione, Raffaele era un chirurgo plastico convertito allo fotografia. Nel 1993 la Somalia devastata da guerra e siccità gli offre la prima occasione d’avvicinarsi al fotoreportage di attualità: documenta la tragedia e ritrae gli inviati della Rai Ilaria Alpi e Miran Hrovatin poco prima della barbara uccisione. Nel 1998 è uno dei primi fotografi a comprendere la rivoluzione d’internet e a trasferire tutto il suo lavoro su “Postcards from Hell – Cartoline dall’Inferno” il sito web che da quel momento raccoglierà tutte le immagini e le riflessioni di viaggio. I suoi reportage in Rwanda, Sierra Leone, ex-Jugoslavia, Albania, Kosovo, Iran, Cecenia e Afghanistan trovano spazio sui maggiori giornali di tutto il mondo, dal Corriere della Sera al New York Times. Viaggia più volte con Maria Grazia Cutuli, l’inviata del Corriere della Sera assassinata in Afghanistan. Nel 2002 decide di tornare in Palestina per raccontare la Seconda Intifada. Il 13 marzo a Ramallah mentre si sporge per riprendere un carro armato israeliano viene falciato do uno raffica di mitraglia.

(Milano ­- Spazio Oberdan dal 15 al 30 giugno 2013)