LA LINEA
Di LAURA SIMONETTA
È col buio che arrivano, senza fare rumore. Sagome, forse spettri. Non hanno pace. Come noi, come me. Ogni notte un nuovo attacco da respingere. Ogni notte, il suono a raffica della mitragliatrice, la conta infinita di corpi straziati, mutilati. Morti. Sento il comandante urlare: «Avanti! Mangia crauti figli di puttana, venite a prenderci!» Ma so bene che è il delirio a parlare per lui. La paura non può esistere nella linea tra noi e il nemico. Meglio viverla come una donna da apprezzare con una pacca sul culo, anche quando sul volto ha un sorriso beffardo.
Sono un soldato semplice di trincea, un bracciante strappato alla terra che, un giorno, si riunirà a lei, per non abbandonarla più. I superiori urlano motti di sprono. Io rimango zitto, incapace di capire che quello che mi colpisce sia vero, e non frutto di un incubo. Il mio compito è sempre lo stesso: stare fermo, in allerta, nell’attesa dell’ordine. Solo allora salgo le scale per l’inferno e la notte torna chiara come il giorno. Il cielo si carica di tempesta e i proiettili, come sciami impazziti, ronzano in ogni direzione pronti a infilzarsi nella carne, assetati, come maledette zanzare. Avrei voluto che dal cielo fossero piovute vacche grasse e ben disposte, non bombe e granate. A volte sogno che il fuoco dei nemici arrivi a fermare questo lungo incubo, ma la volontà di vivere è più forte di ogni atrocità, di qualsiasi dolore. L’ho promesso a Giorgio, mio primogenito, a Giulia, mia moglie, e al seme che ancora sta crescendo in lei. Quando tornerò, non sarò più l’uomo di prima. Ma, loro, ancora non lo sanno. Ho perso l’anima in battaglia, naufragata nel primo corpo che ho ucciso, cancellata dalle lacrime per i compagni lasciati sul campo a morire, con gli occhi spalancati sul nulla.
Da qualche giorno non fa altro che piovere a dirotto. Il grasso per gli scarponi è finito e i calzettoni non si asciugano, intrappolati nel fondo della trincea. La temperatura è insostenibile e il freddo sembra aver patteggiato col nemico. Non riesco a muovermi, i piedi fanno male: sono gonfi, arrossati, pieni di vesciche sanguinolente. Il dolore aumenta ogni giorno. Fino a quando sparisce, come la sensazione stessa di non aver più i piedi. Non li sento. Non esistono più. In quel momento l’attacco. Non so muovermi, non posso fuggire, e mi abbandono a chi, forse, lassù può sentire. Il pensiero va al sorriso di mio figlio, all’abbraccio di Giulia, al calore del suo corpo. Il mio urlo più forte dello schianto che cancella ogni cosa. Buio.
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