RB 2010 – Il canto degli alberi – Francesca Musi, Enrico Mariani

Il canto degli alberi

E’ giornata bella di sole e nuvole bianche sparse a fiocchi come i pon pon sulla mia berretta bianca. Andiamo al parco degli alberi che sfregano il cielo a scoprire dove nasce il vento. Chi fa il vento? Lo fanno le nuvole spostandosi, o sono tutti quegli uccelli che sbattono le loro ali forte forte? 

Con la mamma e senza automobile  entriamo nel parco, posso andare sull’altalena ah ah ah ah ah.

Ogni spinta un volo nuovo, un occhio su qualcosa che poco prima stava in una valigia senza nome. Forse sono tutte le altalene del mondo che spostandosi su e giù fanno il vento? Per me il mondo è ancora piccolo e si allarga pian piano come un poco di latte rovesciato sulla tavola. In altalena faccia di mamma grande, faccia di mamma piccola, faccia di mamma grande, faccia di mamma piccola e avanti indietro, avanti indietro. 

Voglio chiedere tante cose, mappe e grattacieli verdi, ma le sillabe che escono dalla mia bocca succhiano un altro senso. Ah ah ah ah ah.allora acchiappo con le mani quello che vedo e mamma è contenta di sorrisi e baci anche se non capisce i miei versi. Mamma sa di buono, odore caldo ed erba, pane morbido e capelli teneri. 

Forse anche lei vuole capire dove nasce il vento. Ma adesso le nostre parole non coincidono, le parole non coincidono sono solo lettere sparse in aria. Cambia il cielo, arriverà l’autunno? 

Improvvisamente un’ape ronza intorno, brutto, paura, paura. Vrrrrrrrrrrrrrrr. Mamma non si accorge della bestia volante e immagina sia stanca di dondolare e masticare aria. Mi porta via dall’altalena in un botto. Peccato, mi piace tanto stare sull’altalena e masticare aria, e guardare faccia di mamma grande, faccia di mamma piccola, faccia di mamma grande, faccia di mamma piccola, avanti, indietro, avanti, indietro. 

Ma per oggi mi accontento e arrivo a terra inizio a girandolare per il parco. Traballo, traballo a volte cado e ballo sull’erba ispida di istrici e foglie gialle e ottobre ma si incrociano ancora farfalle. Ancora non riesco a camminare spedita, ma non importa, rastrellare il terreno aiuta a raccogliere ogni cosa fra le dita, tocca tocca tocca ci sono castagne matte, fili d’erba e coccinelle. 

Tesorino metti giù che altrimenti ti sporchi– dice

Io rimango delusa, cerco il suo sguardo, lo incrocio, penzola là in alto ma non vede, adesso è dietro e mi solleva. Uffa! 

Di nuovo a terra, vado gattoni e a passi traballoni da un albero vicino per toccarlo e lui parla racconta del vento. Io sento che parla, cotoo cotoo cotoo. Ecco ci sono, la mia mano piccola piccola si posa sul tronco rugoso e faccio il solletico a tutta la pianta, su su fino in cima. Stiamo in compagnia io e l’essere di legno, mentre mamma parla con altra mamma di pappe e nanna. Io e il gigante ci raccontiamo sottovoce chi fa il vento. Respira profondo e muove uno sciame verde e giallo che si porta appeso a coriandoli. Pian piano l’albero alza un vento morbido per grattarsi e accarezzarmi, mi piace sentirlo sulla pelle e vedere le foglie che ballano sui rami come tanti piccoli pupazzi appesi. Più si agita più incita i vicini, a grattare il cielo, frustare l’aria e frullarla al centro, proprio lì dove nasce il vento. Mamma vuole tornare a casa dice che tutta quest’aria mi farà male alle orecchie e alla gola, mamma ansiosa. Mentre mi allontano dall’albero il vento si fa forte, sembra voglia trattenermi, cullarmi, come ninna nanna ninna nanna e le nuvole si fan più fitte e sono panna.

Un gatto mi fissa attento, ha capito che adesso so chi fa il vento. 

Come faccio a spiegarlo alla mamma che sono gli alberi a fare il vento a loro piacimento? Lei non sente quel che sento io, ha solo paura che l’aria mi faccia starnutire e, non ascolta e non sente respirare i tronchi e chiacchierare i rami, bisogna che la chiami ad ascoltar le foglie e le loro voglie. Arriva con il passeggino e la sciarpa rossa, io la guardo e sorrido,  allargo le braccia per farmi sollevare accompagnata dal canto degli alberi come in una danza fino al suo collo di suoni attutiti e carezze. 

La mamma mi osserva silenziosa poi, leggera come imita i miei gesti il vento le sbatte i bei capelli in mille mulinelli.

RB-2010 – Ed è così bianco come la neve – Maddalena Ramolini

Ed è così bianco come la neve

Dana vive in una palla di vetro. Una di quelle con la neve dentro, che si trovano sotto l’albero la mattina di Natale, di solito regalate da una vecchia zia che non vediamo da troppo tempo.

Una casetta che sembra di marzapane, gialla e rossa, con il fumo che esce dal camino. Un abete imbiancato dalla neve finta. Una piccola staccionata di legno chiaro. Una strada deserta che non porta da nessuna parte. È tutto qui il mondo di Dana.

Lei si sveglia la mattina ed esce dalla piccola porta rossa, alza il viso verso il cielo e la neve chimica le brucia le ciglia. Intorno è tutto silenzio, prova a parlare e la sua voce rimbomba come in una scatola chiusa. Appoggia le mani sul vetro curvo che delimita tutto il suo universo, le palme rivolte verso l’alto. Soffia sul vetro per farlo appannare, scrive piano con il dito qualcosa che nessuno leggerà mai, forse una richiesta d’aiuto, forse una preghiera, forse le parole di una canzone che le sembra di aver sognato la notte scorsa, una cosa completamente senza senso ora che ci pensa, dato che non esistono canzoni né musica di alcun genere lì dentro. Non esiste niente, solo neve neve neve e aghi di pino schiacciati per terra. Non esiste niente, solo lei stessa e la sua bianca solitudine che la avvolge come una coperta.
Ogni tanto qualcuno capovolge la palla di vetro e lei si ritrova a testa in giù, così, da un momento all’altro. L’unica emozione che potrà mai provare in tutta la sua vita.

Dana non sopporta più niente, di tutto questo. Non sopporta più la neve, il silenzio, la pace che c’è. Non riesce ad accettare di non doversi mai mettere alla prova, lottare, provare delusioni, cadere e rialzarsi. Il bianco accecante che la circonda le fa male agli occhi. Sa che nessun sole asciugherà mai le sue lacrime di ghiaccio. Odia avere il mondo a un passo e non poterlo mai raggiungere, separata da una sottilissima parete di vetro. Vorrebbe un sole forte e cattivo che sciogliesse di colpo tutta la neve, sentirla svanire sotto le sue dita che lentamente riacquistano calore. Vorrebbe vedere di che colore è la terra sotto quel manto bianco che la soffoca, se ci sono dei fiori, magari.

Certe volte vorrebbe solo che qualcuno, distratto, mentre spolvera la sua prigione di cristallo, inavvertitamente la faccia cadere per terra. Passa ore a immaginare il suono del vetro che si rompe in mille pezzi a contatto col pavimento, così terribile e liberatorio allo stesso tempo. Allora forse potrebbe rialzarsi, un po’ intontita dalla caduta certo, ma libera, finalmente. Con qualche fiocco ancora tra i capelli e le mani arrossate e gelide, camminare per la prima volta in una strada che, anche se non si sa dove va a finire, porta sicuramente da qualche altra parte. E mentre aspetta, seguita a sognare, seduta in un angolo con le braccia intorno alle ginocchia.

E intanto la neve continua a cadere.

 

RB-2010 – Il giorno dei colori – Alberto Arecchi

Il giorno dei colori

Un giorno, al risveglio, ogni colore s’era trasformato nel proprio complementare. Il cielo era giallo-rosato, la gente aveva la pelle cianotica, l’erba era diventata rossa.

Due topi si scrutarono impauriti, nel vedersi col mantello quasi fluorescente: sembravano disegnati col neon. Un’ape a strisce bianche e viola volava impazzita. L’acqua della risaia rifletteva il cielo color zabaglione. Una rana rosso-fuoco vide passare una zanzara, candida come la neve. Reagì d’istinto, allungò la lingua e lo catturò. Il sapore era pur sempre quello di un’ottima zanzara. Il batrace capì che gli conveniva tenere d’occhio gli esserini bianchi svolazzanti… non somigliavano agli insetti del giorno prima, ma si muovevano come loro ed avevano lo stesso sapore. Anche la rana però, benché diventata rossa, apparve ugualmente come un buon boccone al candido corvo, che scese a divorarla.

Nadia si svegliò di soprassalto. Un mese prima aveva dipinto la camera di rosa ed ora le appariva verdolina, d’una tinta un po’ livida, nella luce del mattino. Il gatto di casa saltava da un mobile all’altro, in un ambiente che vedeva estraneo, come un’astronave. Poi riconobbe il proprio odore, in un angolo del tappeto, e si tranquillizzò.

Fu allora che il fiume cominciò a colorarsi. Le acque si rimescolarono tra loro ed assunsero concordi un colore blu, come l’inchiostro stilografico. Il sole batteva sulle onde e sui vortici e ne traeva mille riflessi. Si stupirono i pescatori. Si stupirono ancor di più i pesci. La voce si sparse rapidamente. Il fiume colorato batteva contro le pile del vecchio ponte medievale e tutti accorrevano a vederlo.

L’acqua tracciava ghirigori ed arabeschi sulla sabbia delle sponde e delle isole, come l’agile scrittura d’una mano esperta. I segni presero forma e divennero parole. I rivoletti delinearono mille, diecimila, centomila volte, una stessa parola, lungo tutto il corso del fiume: “Basta! Basta! Basta!” Basta inquinamento? Basta guerre? Ciascuno interpretò l’espressione come meglio credeva. Tutti avevano qualcosa cui dire: “basta!” e perciò tutti si trovarono d’accordo.

Solo la discarica di rifiuti, che ammorbava la città, non si trasformò. Massiccia, elefantiaca, puzzolente come sempre, la discarica resistette e non cambiò colore, rimase tetra e squallida. I suoi miasmi si levavano nell’aria, grigi e cupi, a futura memoria. Qui si svolgeranno gli scavi archeologici dei posteri, per ricostruire la nostra civiltà.

 

RB-2010 – Inappartenenza – Lucia Cherubini

Inappartenenza

“Io amo la vita semplice delle cose.

Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,

per ogni cosa che se ne andava!”

Corazzini, “Desolazione del povero poeta sentimentale”

Sento una grande tenerezza per i libri non miei sui quali faccio conti di nessuna importanza, per le penne smarrite da altri nella mia borsa, per questo appartamento vuoto, per le tende che languono da anni a finestre chiuse, soffocate dalla polvere, con un urlo muto che nessuno ascolta.

Ho amato il tremare di verde della primavera e il tremare di pioggia dei cancelli in autunno.

Sento tenerezza fino alle lacrime per il pallone che fugge tra le case, per il pianto disperato del bambino che vede cadere il gelato che ha pagato con la sua moneta appiccicaticcia, il gelato al quale nessun altro sarà uguale.

Ho pianto, soprattutto per i pianti degli altri.

Ho pianto per le stanze vuote e per l’agonia delle parole dimenticate in un cassetto. Ho versato lacrime segrete, questa mattina, per i tasti ingialliti del pianoforte: ingialliti e scordati, tasti che non vengono accarezzati da una vita.

E’ così che te ne sei andata, nel silenzio mattutino delle sei: le rotelle della valigia che strisciavano a terra e i tacchetti sul marmo delle scale ne facevano parte. Il tram se n’è andato con un gran fracasso, ed era silenzio anche quello.

Quel giorno, senza saperlo, hai vagato con me per le strade deserte della città di primo pomeriggio: eri ovunque. Dei dieci film in programmazione al cinema, solo tre non li avevamo già visti insieme.

Ho pensato che il pianoforte si ricordasse ancora della sonata “Al chiaro di Luna”, che poi, come ci tenevi sempre a precisare, si chiama “Sonata quasi una Fantasia”. “Al chiaro di Luna”, a me, piaceva di più.

In ogni modo se lo ricordava. Me l’ha detto con il lamento straziante dei tasti scordati. Mi sono voltato verso l’antiquario e ho detto che poteva portarlo via.

Adesso mi aggiro nell’appartamento deserto, spoglio, nel quale la luce del tramonto che filtra dalle imposte disegna ombre sui pochi mobili rimasti, coperti da lenzuola bianche. Fantasmi.

Quella mattina, prima che il tram partisse, alla finestra ti ho guardata salire. Ti sei voltata verso di me, mi hai guardato desolata, e so che stavi aspettando che ti fermassi: mi lasciavi ma ti sentivi come me: come se le tue uniche certezze le avessi, ormai, dietro le spalle.

Ti ho guardato, le labbra, la curva delle spalle, e l’orlo del tailleur, sotto il ginocchio, raffinato e demodé.

Un colpo di vento ha chiuso le imposte.

 

RB-2010 – La libellula tra i tappeti – Teresa Betti

La libellula tra i tappeti

Sari tesseva l’ultimo tappeto della giornata.

L’odore di lana e il dolore delle bolle sulle sue mani erano per lei un’abitudine.

Lavorava da cinque anni nella fabbrica di tappeti del signor Qubosal e, nonostante ne avesse soltanto dieci, aveva già provato sulla sua pelle che cosa significava non eseguire un ordine del padrone.

Ma la sera era sua. Non eseguiva gli ordini di nessuno!

Così si sdraiava sulla sua stuoia e si trasformava in una libellula dalle ali d’argento, passava attraverso le piccole fessure delle finestre e planava poi verso il cielo stellato e verso la sua libertà.

Ma al mattino il sogno finiva. Sari si alzava e tesseva un tappeto come aveva fatto il giorno prima, e come farà per tutta la vita.

 

RB-2010 – L’uomo che conta i soldi – Fabio Savant

L’uomo che conta i soldi

Ricordo che in seconda elementare la maestra ci raccontò di bambini lontani e meno fortunati, così poveri che non avevano niente con cui giocare. Ci invitò a fare un’opera buona, a rinunciare a uno dei nostri giocattoli per donarlo a loro, in occasione del Natale.

Quando ne parlai ai miei genitori entrambi lodarono l’iniziativa, ma io pensavo di avere un’idea migliore. Mio padre lavorava alla zecca di stato, perciò gli domandai: “Papà, non puoi fare più soldi? Così potranno averli anche i poveri.”

Lui mi rispose: “Non funziona in questo modo: la quantità di soldi che circola deve corrispondere alla ricchezza del paese.”

“Appunto,” replicai, “Se ne fai di più il paese sarà più ricco e non ci saranno più poveri.”

“No,” mi spiegò, “Se ne facessi di più, i soldi varrebbero di meno.”

Proprio non capivo come i soldi potessero valere meno di ciò che valgono, ma insistetti: “E tu non dirlo a nessuno che ne fai di più.”

Mio padre si mise a ridere. “I soldi vengono contati,” disse.

Immaginai un uomo vestito di grigio, con la schiena curva e le mani un po’ viscide, che di mestiere contava i soldi. Tra me e me pensai: “Qualcuno dovrebbe ucciderlo.”

Ero deluso, ma rimaneva ancora la proposta della maestra.

Andai in camera e cominciai a disporre in fila i miei giochi. C’era una scavatrice radiocomandata completa di segnalatore luminoso; c’era un coccodrillo di gomma a cui avevo staccato la coda tirandola troppe volte e con troppa forza; c’era un giochino elettronico, ridicolo se paragonato a quelli che hanno oggi i miei figli, ma che all’epoca tutti mi invidiavano; la fila continuava a lungo e ogni oggetto aveva per me qualcosa di magico e irresistibile.

Impiegai diversi giorni per decidere e alla fine confezionai una piccola scatola regalo con i colori del Natale. La portai a scuola e la misi nel cesto che la maestra aveva preparato, cercando di nasconderla sotto tutti gli altri pacchetti.

In questo momento sono seduto dietro un tavolo in radica, indosso una cravatta da quasi cento euro e ho ancora in bocca il sapore del caviale del brunch. Nel mio ruolo di rappresentante istituzionale, discuto con i miei pari da tutta Europa di cosa si possa fare contro la povertà.

Di fronte a me un uomo si è alzato in piedi tentando di dare enfasi alle sue parole, di far capire la vera natura del problema. Ha in mano una piccola scatola sbiadita dal tempo.

Quarant’anni fa quell’uomo era un bambino e teneva in mano la stessa scatola per la prima volta, ed era vuota allora come lo è ora.

E torno a pensare che per sconfiggere la povertà qualcuno dovrebbe uccidere l’uomo che conta i soldi.

 

RB-2010 – Prove tecniche di incontro amoroso – Rosalia Messina

Prove tecniche d’incontro amoroso

Una domenica di mezza estate

Da quasi un anno non ti vedo.

Soprattutto, da quasi un anno non mi vedi. E sono cambiata davvero tanto.

Lo sai, ma non immagini quanto. Ci sono state email dense. E telefonate incoraggianti e coraggiose, anche mentre le flebo mi versano il veleno benefico nelle vene.

Provo allo specchio una cloche sulla superficie cranica deserta, e penso al ritmo sbilenco di questa storia. Distanti ottocento chilometri, schiacciati tra il tempo avaro e l’illusione che ne resti anche per realizzare i desideri, infine ci accorgiamo che ne sono rimasti pochi spiccioli. Mi salvo nei sogni, e sogno tanto: a occhi chiusi riscrivo il passato, a occhi aperti invento il presente e il futuro.

Tre settimane fa,  in una mail che titolava For your eyes only, scrivevi che saresti venuto presto. Solo per me, nessun convegno, riunione, pranzo di lavoro.

– Ho prenotato il volo, arrivo il trenta, alle dieci e un quarto – ha detto la tua voce al cellulare una settimana fa.

Un breve silenzio. Intanto le mie vene ricevevano goccia a goccia il liquido che di certo intossica e forse guarisce.

– Ti aspetto.

Lunedì

Arrivo in auto all’appuntamento, al solito posto, dopo lunghe prove davanti allo specchio. Sono diventata abile a vestire di colore il viso che, nudo, ti allarmerebbe. Ho schiarito le occhiaie viola, acceso le guance avorio e le labbra smorte, dato spessore fittizio a ciglia e sopracciglia. Occhiali scuri e orecchini d’argento a completare il restauro.

Il tuo sorriso è già qui. Sali, ci guardiamo in silenzio; poi mi baci sulle mani, sui polsi. I malati oncologici, si sa, sono fragili; vorresti proteggermi da contatti rischiosi. Spengo il motore, prendo il tuo viso tra le mani e ti bacio sulla bocca.

È tutto naturale. Nessun imbarazzo, nonostante il tempo passato.

– Sei molto magra – dici – ma sembri energica come sempre e di ottimo umore. Sei bella.

Passeggiamo inseguendo l’ombra. Pranziamo all’aperto, sotto il  pergolato del locale che frequento da quando ha aperto, ventisei anni fa. Di pomeriggio facciamo merenda con granita e brioche sul lungomare.

Hai sentito la domanda inespressa. Se mi desideri anche come sono adesso.

E mi hai  risposto,  senza parole.

Martedì

Sei partito.

– Quando starai bene  – hai detto salutandomi – ti porterò al mare. Promesso. Una settimana tutta per noi.

Mi manchi, ma non ci sentiremo domani. Non va così, fra me e te. Ci ritroveremo senza fretta, senza pressioni.

Se non è la felicità, è la cosa che più somiglia all’idea che me ne sono fatta.

L’amore – direbbero in tanti – è un’altra cosa. Ma che ne sanno, di noi due.

 

RB-2010 – Casi di vita – Mario Di Pietro

Casi di vita

La sua esistenza, sino a poco tempo addietro, era stata, per così dire, abbastanza normale.

Rimasta sola, non si era adattata alla nuova situazione e, ad aggravarla, tutti gli avevano voltato le spalle.

Una storia dolorosa, come tante altre, d’altronde. A poco a poco era caduta in una profonda depressione. I pochi risparmi che aveva messo da parte, nel tempo, erano terminati. In preda alla disperazione, aveva deciso di prostituirsi.

Quel giorno, uscendo dal misero locale che serviva da rifugio alle sue angosce, diede, senza nemmeno pensarci, i pochi spiccioli che le erano rimasti a un cieco che stazionava nei pressi della casa e che vendeva, con i biglietti della lotteria, speranze e fortuna.

Errò per parecchio tempo senza una precisa meta, fin tanto che calò la sera. Mille pensieri le attraversavano la mente e, nonostante la decisione presa, non riusciva a metterla in atto. Il suo corpo non aveva più la forza di reagire. Si sentiva distrutta, e nel contempo fu pervasa da uno strano quanto incipiente malessere. Aveva il sentore che stesse per succederle qualcosa. Man mano che i minuti scorrevano, le venivano a mancare le forze, mentre il malessere era aumentato al punto tale da costringerla ad appoggiarsi a un muro per non cadere. Era debolissima. Stava per svenire. Cercò di reagire, per tornare a casa. Vi giunse appena in tempo, prima che le forze l’abbandonassero. A malapena si trascinò sul pagliericcio che le serviva da giaciglio. Il suo corpo vi rimase immobile, per sempre. Fu ritrovata alcuni giorni dopo.

Un sommario quanto toccante rito funebre pose fine al suo passaggio terreno, e al suo ricordo, che svanì nel nulla.

Il venditore cieco non fu in grado di dire chi avesse acquistato quel biglietto, e così il primo premio della lotteria nazionale, quell’anno, non fu assegnato.

RB-2010 – Colui che camminava nelle tenebre – Enrico Ventura

Colui che camminava nelle tenebre

Uscirono di pattuglia, con l’auto di servizio. A stento i fari illuminavano l’oscurità che grava sempre sulle strade del comune di Vallebuia, in provincia di Tenebra, dimenticato da Dio e dall’Enel. Qualche fioco lampione appariva, più che una luce, una beffa, e alimentava, giù nei visceri, la Paura Estrema. Gatti e uccelli notturni, neppure loro, non si azzardavano per quelle strade. In una notte senza luna una civetta volò da un albero all’altro e, la mattina dopo, spiaccicata, fu sepolta da Nonna Strizza, l’ostetrica di quel luogo dove molti bambini nascevano ciechi.

La pattuglia era composta da Manuela, bella e provocante appuntata, e dal brigadiere Lo Terso, che era ormai sull’orlo della pensione e non vedeva quasi più nulla, né voleva sapere altro oltre il Regolamento. La bella Manuela, che era piena di ambizioni e sperava di posare un giorno per calendari paganeggianti, lo tormentava con ripetuti rimproveri.

“Se tu non avessi millantato al Comandante che noi siamo di “Carabinieri Dieci”, mentre la produzione è ancora a “Carabinieri Nove”, non ci avrebbero trasferito in questo posto maledetto”.

“Taci, appuntata! Mi sembra di vedere un uomo”.

“Tu vedere? Che vuoi sfruculiare?”

Ma il brigadiere aveva ragione: proprio sotto uno dei pochi lampioni della strada, che in quel punto deviava sulla sinistra, camminava un uomo.

Camminava in modo strano, dinoccolato, come se fosse fatto di snodi, leggero e veloce. La scarsa luce impediva di vedere il suo vestito, e un cappuccio gli copriva il capo. “Non ha il giubbotto catarifrangente!”, gongolò la bella Manuela, e prese nel cruscotto il libretto delle multe. Il brigadiere accese i lampeggianti e si munì di una piccola torcia elettrica.

Illuminato da dietro da potenti fari, e apostrofato con la tipica voce educata e meridionale dei doppiatori dei telefilm sulla polizia italiana, l’uomo che camminava nelle tenebre rallentò il passo. La bella Manuela, educata ma ironica, gli disse: “E così ci siamo dimenticati il giubbotto, eh? Non conosce le ultime disposizioni ministeriali? Non sa che chi lascia l’auto senza indossare il giubbotto omologato in vendita per pochi euro – negli eleganti colori rosso, giallo, arancione e vomito di gatto – oltre a correre il rischio, come correva lei, di essere investito, incorre in una multa da 100,00 a 500,00 euro, e perde due punti della patente? Mi dice dove ha lasciato l’auto?”.

“Io mi chiamo Torquato Lo Sfigato, e in vita mia ho mai avuto un’automobile, e nemmeno una bella donna come lei. Con tutto il rispetto”. La sua voce era sibilante, non modulata, e Manuela si illuse che fosse il desiderio per lei a strozzargli l’ugola.

“Mi dia un documento”, disse il brigadiere Lo Terso. L’uomo che camminava nelle tenebre tirò fuori una custodia cartacea che provocò un forte fastidio al brigadiere. Avvertì un odore dolciastro, nauseante, e allora puntò la piccola torcia sul viso dell’uomo, nascosto in parte nel cappuccio. Il brigadiere, per sua fortuna in questo caso, era miope, presbite e ipermetrope.

“Allora lei non gira in auto?”.

“Controlli pure il Comando, se vuole”.

“Vada pure, ma stia attento. E si faccia fare una carta d’identità nuova”.

“Ho gli occhi di gatto e mi guardo anche dietro”.

La voce dell’uomo aveva una sfumatura di ironia. Abbozzò un saluto militare e se ne andò, svanendo nelle tenebre.

“Sono convinto”, disse il brigadiere, “che questo obbligo del giubbotto sia una cavolata, se  non viene esteso a tutti quelli che frequentano le strade buie. Automobilisti o pedoni che siano. Che ne dici, il pericolo non è identico?”

Manuela non rispose. Era svenuta. Lei ci vedeva benissimo, e aveva visto il viso dell’uomo. I cavi orbitali senza occhi e i denti senza labbra.

L’uomo intanto aveva raggiunto il cimitero e qui, alla luce dei fuochi fatui, trasse lo specchio magico che gli mostrava il volto di quando era vivo. Un giovane bellissimo. Pensò a Manuela, e sospirò. Poi si trasformò in nebbia sottile. Filtrò sotto la sua lapide, e sparì. Sulla lapide era scritto: QUI GIACE / TORQUATO LO SFIGATO / 1965 – 2000 / TRAVOLTO  DA UN CAMION PIRATA / IN UNA NOTTE SENZA LUNA / NON AVEVA IL GIUBBOTTO CATARIFRANGENTE!

E intanto che Torquato rientrava nella sua bara, le tenebre di Vallebuia della provincia di Tenebra stesero le loro enormi, terribili mani su tutta la Terra, e per gentile concessione di Edgar Allan Poe, al rintocco della mezzanotte, la Morte Rossa entrò nei saloni della gente Bene e di quella Male.

E io mi svegliai da quell’incubo recitando il Classico dei Classici: “… e nella palude putrida vidi lentamente sprofondare le rovine della Casa degli Usher”.

N.B. Oggi le nuove norme del Codice della strada hanno finalmente esteso l’obbligo del giubbotto catarifrangente anche ai ciclisti.

                                                                       L’autore

Qualche commento della stampa:

… un racconto che è una vera panacea per gli stitici…  (La  Repubblica)

… farebbe rizzare i capelli in testa anche a Claudio Bisio…  (Il Corriere della Sera)

… speriamo non corrompano l’Autore comperando il testo per Carabinieri 11…   (Libero)

… una concorrenza intelligente non mi dà fastidio…  (Woody Allen)

… quand me l’han lett, me sont sentii risciàa i busecc!…  (Umberto)

… Allegria…  (Mike, da lassù)