PASSATO – FUTURO – IDENTITA’ (2/3)

Segue da PASSATO – FUTURO – IDENTITA’  (1/3)

Integralismo, rifiuto del cambiamento, ideale di passato, fierezza. Ci si potrebbe aspettare di trovare nelle opere d’arte contemporanee i riflessi di una tragedia immane, di disperazione e di rovina. In parte questo è tangibile. Ma se di tragedia si può parlare, questa è la disperazione e la rovina dovuta al continuo stato di allerta per il conflitto in atto. Si è consci del passato, mentre il futuro sembra derivare da un presente dilatato di positività, ma non di ottimismo.

Riprendiamo come spunti di indagine e riflessione alcuni esempi di artisti israeliani contemporanei che non costituiscono di certo la globalità dell’arte di questo popolo, ma forse ne delineano i tratti interessanti e distintivi.

Il futuro: il mito del soldato, la bellezza della gioventù, la prospettiva

Nir Hod - Gioventù perduta (2003)Nell’opera “Gioventù perduta”, Nir Hod raffigura un funerale militare. Il dipinto, prodotto direttamente da una fotografia di giornale raffigura un gruppo di giovani soldati visti attraverso il centro di una corona funebre di grandi dimensioni. La bara del compagno morto, anche se non è visibile nel quadro, è indicata dalla presenza dei fiori e dei soldati che fanno il saluto militare. Le opere di Nir Hod sono dominate da immagini di giovani bellissimi circondati da fiori altrettanto belli in vari stadi della fioritura, creando così un evidente collegamento fra bellezza, gioventù e morte. Questa predominanza chiarisce che non è solo il dolore a essere traumatico, ma anche la bellezza ad esso collegata. “Il quadro del funerale è un passaggio alla politica”, spiega Hod. “Si tratta di un funerale universale che commemora tutti i giovani, soldati di entrambi i sessi, chiunque essi siano”.

Trembling Time (2001)Yael Bartana è una videoartista la cui famiglia è profondamente radicata in Israele. Le sue opere indagano gli aspetti sociali, militari e nazionali della società israeliana che contribuiscono a formarne l’identità. Il suo lavoro Trembling Time (2001), descrive il rituale suono della sirena che segnala l’inizio del giorno dedicato alla memoria dei soldati caduti nelle guerre d’Israele. Ogni anno, il giorno 4 del mese di lyar del calendario ebraico, alle otto di sera, in tutto il paese risuona per un minuto una sirena che annuncia l’inizio del giorno della memoria dei caduti. La sirena costituisce una particolare consuetudine nazionale israeliana, che si è sviluppata dopo la fondazione dello stato ed è formalizzata da una legge. Essenzialmente è un segnale, che per un preciso lasso di tempo strappa al fluire regolare della vita i cittadini israeliani: tutti interrompono all’istante le loro occupazioni per bloccarsi sull’attenti a testa china; solo l’urlo della sirena taglia il silenzio. Per un minuto l’individuo e lo stato si fondono, uniti nel lutto nazionale. Non appena la sirena cessa, ognuno ritorna alle proprie occupazioni.

Shirat Ha-Yam, Il canto del mare (2005)Osservando le fotografie panoramiche di grandi dimensioni di Barry Frydiender, l’occhio vaga senza fermarsi in un singolo punto. Qui non si tratta del solito, rapido, sguardo sufficiente per una fotografia; è necessaria un’osservazione che richiede una lunga sosta di fronte all’opera. I lavori sono costituiti da decine di fotografie scattate in orari e giorni diversi, con fotografo e macchina fotografica in movimento, con l’obbiettivo esposto per tempi diversi, successivamente montate ed elaborate digitalmente. Il prodotto finale sono composizioni ricche di dettagli, che rappresentano il soggetto – luogo o persone che siano – con straordinaria eleganza, ben superiore all’immediato e al concreto dato reale. “Shirat Ha-Yam”, (Il canto del mare) del 2005, è il nome di un piccolo insediamento costiero nel sud della Striscia di Gaza, che è stato evacuato durante il ritiro israeliano da Gaza nell’agosto 2005. Frydiender si è recato sul posto per documentare l’evento “Volevo essere presente all’inizio, proprio nel momento della fine dell’occupazione”, ha commentato. Nella fotografia si vedono il piccolo insediamento e suoi abitanti circondati dai soldati. I militari sono schierati a semicerchio, in perfetto ordine, mentre gli abitanti sembrano spinti verso l’acqua; questa volta non più dagli egiziani, come nel caso dell’Esodo biblico, bensì da soldati israeliani.

A seguire

PASSATO – FUTURO – IDENTITA’ (1/3)

bambiniQuella di Israele è storia di un popolo che in modo per lo più inspiegabile, è sopravvissuto a condizioni nelle quali ogni altra minoranza si è dispersa, disciolta all’interno della società dominante che la ospitava. (Giorgio Tavani – Israele, una storia d’amore – Nov.2013)

Le ragioni di questa coesione e resistenza alle forze centrifughe sono certamente intuibili seguendo il filo logico che intreccia storia a narrazione senza però comprenderne i risvolti più intimi. Gli elementi che hanno fatto da collante per questo popolo, a noi così distante ma per certi versi così prossimo, sono registrate in fatti, scritti, monumenti, oggetti, ma nello stesso tempo, e forse molto meglio, nelle emozioni degli individui che lo compongono.

Cosa distingue gli israeliani dalle altre nazioni? A questa domanda, quasi tutti risponderebbero che il tipico israeliano è veramente un tipo particolare. Naturalmente molti elementi distintivi israeliani hanno origine nella tradizione, nella storia e nella cultura degli ebrei, ma molti altri sono unici e assai distanti dalle caratteristiche degli ebrei della diaspora.  (Oz Almog – Il genoma Sabra nella mentalità israeliana – 2009) 

Una risposta, o meglio un tentativo di capire, ci è data da un angolo di visuale molto particolare, l’arte figurativa,  che in modo privilegiato espone al nostro senso più intuitivo, la vista, quanto di meglio l’animo umano è in grado di sintetizzare.  Alcune considerazioni preliminari ci aiutano ad inquadrare i fatti. Sono tratte da un saggio di Naomi Aviv, curatrice indipendente dell’arte contemporanea a Tel Aviv, Israele, pubblicato in occasione della mostra “AS IS”, tenuta nel Complesso del Vittoriano a Roma nel 2009-2010 a cura di Ruth Cats. 

La breve storia dell’arte israeliana inizia nel 1906, con la fondazione di Bezalel, la prima Accademia di Arte e Design a Gerusalemme. Gli insegnanti dell’Accademia erano immigrati che portavano con sé l’influenza artistica dei diversi paesi di provenienza, soprattutto europei. La loro visione della nuova terra natale nel cuore del medio Oriente era edulcorata, le loro opere raccontavano ed descrivevano i luoghi, i panorami, gli abitanti e i pionieri che costruivano il paese. Nel 1948, data di fondazione dello stato d’Israele, si costituisce il gruppo Ofakim Chadasim, “Nuovi orizzonti”, unito dalla convinzione che fosse necessario prendere le distanze dalla politica per creare un’arte caratterizzata ed indipendente. Negli anni Sessanta l’arte Israeliana passa dall’astrattismo lirico, con la sua inclinazione alla rappresentazione concreta di un luogo fisico, all’astrattismo “assoluto”, incentrato sul tempo della pittura, o sulla materia concreta della quale è fatta l’opera d’arte. La tendenza concettuale si estende negli anni Settanta, quando tematiche come il “luogo” acquisiscono significati diversi, legati alla terra, al confine, alla rappresentazione di sé ma anche a idee metafisiche, spirituali e metaforiche sul “non-luogo” e sulla “impossibilità del luogo” intesa come concezione tradizionale ebraica, profonda e mitica. “Dio è una sorta di luogo senza luogo, è ovunque, intorno a noi, nonostante non si trovi in nessun posto”. Quella che ancora oggi è definita Arte di Eretz Israel (La Terra di Israele) era la rappresentazione esotica, affascinante dell’oriente, popolata da immagini di arabi in abiti tradizionali, di donne arabe in cammino tra i frutteti con un’anfora d’acqua in testa. Gli anni Ottanta, definiti come Il tempo del post, allusione al passaggio da tardo modernismo al post-modernismo, in Israele come in tutto il mondo occidentale, sono caratterizzati da tematiche che ne riflettono l’epoca, in primis il processo di logoramento dei grandiosi slogan sionisti e la disintegrazione del sogno di solidarietà e lo stabilirsi di un’ironia disfattista. “Alla fine si muore: arte giovane negli anni Novanta in Israele” è il titolo di una mostra imperniata sui reportage giornalisti e fotografici delle aberrazioni dell’occupazione. E’ degli anni iniziali del secondo millennio la comparsa di tutti i mezzi d’espressione e un numero notevole di artisti che sono riusciti ad “oltrepassare i confini del paese”. Lo sguardo si rivolge all’esterno, alla scena internazionale, e sono meno numerosi i riferimenti al “qui e ora” politico.

Esiste un’arte israeliana? Che caratteristiche ha? È legittimo chiedersi se esiste? Non è una questione viziosa, etichettare come nazionale una creazione che per sua natura dovrebbe essere puramente individuale? Anche l’arte italiana, per esempio, soffre di complessi simili? E la tedesca? La francese? Il dissenso sulla questione dell’identità dell’arte israeliana non è separabile dal dilemma riguardante il luogo e l’inquietudine generata negli israeliani dal non sentirsi sicuri nel proprio paese. Sradicamento, immigrazione ed emigrazione, integrazione, distacco dal luogo di provenienza e necessità di inserirsi nel luogo utopico (utopia è proprio il non-luogo) in cui si arriva, il problema di restare fedeli alla cultura di origine o piuttosto di adottare la versione locale di un posto che è stato, che è, e che sarà.

Non esiste un’arte israeliana. Esiste un’arte prodotta da artisti israeliani, una buona arte,  questo lo ammettono tutti, e giustamente. Ciò ci riporta all’annosa questione di “chi è ebreo?”, che per quasi tutta l’esistenza dello stato d’Israele, quando i precetti religiosi hanno perso il ruolo di legge per buona parte del popolo ebraico, è stata lo scottante pomo della discordia. Le risposte dividevano gli israeliani in due gruppi: quanti ritenevano che fosse ebreo chi è nato da madre ebrea o si è convertito secondo il rito ortodosso, e chi, invece, considerava ebreo chi aveva scelto di far parte del popolo ebraico. Con il passare del tempo, la disputa si è affievolita e si è definita in questo modo: i religiosi continuano a difendere strenuamente la prima tesi, mentre la maggioranza dei laici sostengono la seconda. E chi è un artista israeliano? Artista israeliano è chi sceglie di definirsi tale, anche se vive da trenta o quarant’anni a Londra o a New York, purché sia un artista valido…

Come puro tentativo di avvicinamento alla comprensione e non certo in modo esaustivo e completo, è possibile affrontare la questione secondo tre temi fondamentali rappresentati nell’arte figurativa contemporanea: il passato, il futuro, l’identità.

Il Passato: il Sionismo, la tradizione, la memoria, l’oblio

Hila Karabelnikov - Mea Shearim II (2007)Hila Karabelnikov ritrae il quartiere ultraortodosso più estremo di Gerusalemme, un quartiere praticamente separato dalla vita e cultura israeliana, in cui i residenti continuano a vivere come negli antichi “shteti” (i villaggi ebraici dell’Europa orientale) delle terre dei loro antenati, nell’attesa del Messia che deve redimere il popolo ebraico. L’opera ha come tema la festività di Succot, come indicato dagli uomini che indossano soprabiti estivi di colore chiaro, che contrastano nettamente con gli indumenti scuri di ogni giorno, e anche dalla Succah (la capanna) che si erge dietro di essi. Si tratta di una visione estremamente personale; all’epoca della creazione dell’opera, il fratello dell’artista giaceva paralizzato, in stato di incoscienza, in un letto d’ospedale, pochi giorni prima di morire. Questo elemento spiega l’aspetto serio delle figure, alcune delle quali guardano in avanti mentre altre fissano in modo inespressivo gli spettatori. All’estrema destra appare un ritratto dell’artista, incompiuto, dietro a un poster (del tipo noto come pashkevil’) che invita a rispettare l’obbligo di vestirsi in modo pudico. Il modo di vestirsi dell’artista, però, non è per niente pudico, bensì vistoso se non addirittura provocante. È questo il suo modo di esprimere il suo grande dolore e la rabbia di fronte all’amaro destino del fratello e di mettere in discussione l’importanza di un abbigliamento pudico, e addirittura l’esistenza stessa di tali imposizioni religiose, in un simile momento della propria vita.

Elie Shamir - Ninna Nanna per la valle (2008)Elie Shamir è nato e cresciuto a Kfar Yehoshua, un moshav (comunità agricola cooperativa composta da fattorie indipendenti) nella valle di JezreeI, luogo che simbolizza al meglio la realizzazione del sogno sionista e contemporaneamente evidenzia con la massima chiarezza i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni nella società israeliana. Il mutamento più rilevante è il passaggio dal lavoro collettivo, manuale, alle attività commerciali private, prevalentemente nel campo dell’hightech. Kefar Yehoshua ha formato ElieShamir come persona e come artista. La relazione ambivalente col posto in cui è nato si riflette nei suoi lavori, in cui l’artista riesamina il proprio ambiente e il proprio posto al suo interno. Riconsidera i valori mitici secondo i quali è stato cresciuto, rimettendo in gioco il senso di appartenenza verso la casa e la terra della sua infanzia. Nell’opera “Ninna Nanna per la valle”, Shamir definisce la propria esistenza ebraica e identità israeliana contrapponendole a tematiche cristiane e alla tradizione artistica europea. Nella composizione – un coro di cantanti accompagnati da un vecchio pioniere seduto che suona la fisarmonica – , Shamir dipinge gli aridi, spogli campi di Kefar Yehoshua. Il coro di Shamir sta cantando La canzone della valle, del poeta israeliano Nathan Alterman, una ninna nanna che descrive i generosi sacrifici dei primi pionieri della valle che hanno reso fertile una terra desertica. Per loro, il lavoro agricolo era la nuova religione, a cui solamente i nuovi ebrei dovevano dedicarsi. L’opinione realistica, dolorosa e critica di Shamir riguardo ai cambiamenti in atto nella società israeliana trapela chiaramente dalla messa in scena artificiale e sgraziata della composizione, che sfida e sovverte il tema dell’adorazione della Natività. Le donne del coro a prima vista sembrerebbero figlie della generazione dei pionieri sionisti, prova vivente del loro successo, intente a cantarne le lodi, ma la visione di trionfante fiducia è scalfita dalla presenza di una donna tailandese, giunta al moshav come lavoratrice straniera ed ora assimilata nella società israeliana. Di tutto il gruppo, è lei l’unica che canta di cuore, orgogliosa, e così facendo esemplifica il processo iniziato dopo la guerra dei Sei Giorni, quando i lavori più umili sono stati trasferiti dagli israeliani ai palestinesi, e poi ai lavoratori  immigrati. Il ritratto delle altre cantanti trasmette ansia. Una abbassa lo sguardo e si stringe le mani in un gesto di apprensione ed incertezza, mentre tutti gli altri, compreso il suonatore di fisarmonica, distanti e distaccati, si esibiscono meccanicamente. Esprimono così l’angoscia esistenziale di Shamir per il futuro della sua patria. La sua ninna nanna è una nenia funebre, o una canzone che accompagna la valle in un sano riposo, dal quale emergerà ringiovanita e pronta ad affrontare le sfide di un futuro mutevole ed incerto.

Vardi Kahana - Tre sorelle (1992)La formazione giornalistica  ha insegnato a Vardi Kahana a catturare il momento e documentare lo spirito dell’epoca (l’air du temps). Il suo istinto le ha poi permesso di riconoscere l’aspetto pan-umanistico della storia della sua famiglia e di partire per un lungo viaggio meditativo nella grande saga della sua vicenda familiare. Il progetto di Kahana, Una famiglia, comprende quasi cento fotografie in cui l’artista segue con discrezione le tracce del rinnovamento della sua famiglia nel periodo successivo all’Olocausto, presentando una dinastia che si estende per quattro generazioni e tre continenti. I potenti ed eloquenti ritratti dei membri della famiglia, che rimandano a momenti centrali delle loro vite, sono scattati nel loro ambiente; in tal modo l’artista sintetizza il ritorno del popolo ebraico e lo sviluppo di Israele in una nazione. Durante il lavoro, Kahana s’imbatte in questioni, domande e dilemmi di grande attualità: la “purezza delle armi”, il lutto, gli insediamenti ebraici nei territori occupati, la tensione fra arabi ed ebrei a Gerusalemme est, il presente e il futuro della vita nel kibbutz, l’ortodossia e il laicismo. Il viaggio personale di Kahana attraverso la cinquantina di nuclei familiari che compongono la sua famiglia allargata riflette la varietà dei modi di vivere degli israeliani. La scelta del ritratto, forma tradizionale di descrizione preferita per la capacità di sintetizzare la personalità dei modelli preservandone l’essenza fisica, risveglia in chi guarda, abituato a questa modalità di rappresentazione, un senso di familiarità. Lo spettatore è invitato a stabilire un legame con la propria famiglia in modo personale ed estremamente intimo. La fotografia in bianco e nero lo riporta indietro nel tempo, ad un’era meno tecnologica, e impregna il lavoro di Kahana di nostalgia. “Tre sorelle” presenta l’origine della grande famiglia di Kahana: sua madre e le sue due sorelle, tutte e tre sopravvissute all’Olocausto. Gli agghiaccianti numeri consecutivi tatuati sul braccio di ciascuna testimoniano l’ordine con cui sono state registrate ad Auschwitz. Lo sguardo fiero, rivolto all’obiettivo della loro figlia e nipote, rivela la forza che le ha sostenute durante la catastrofe e che le contraddistingue ancora oggi.

A seguire