È notte. Sono in compagnia di alcuni ragazzi cubani. Giovani. So cosa state pensando: “Te gusta la noche de Cuba?” C’è un odore forte. Pungente…
No, non è rum. E nemmeno l’odore dei corpi sudati, stremati dal ritmo della salsa o della rumba.
No, non sono a Varadero o a l’Habana Vieja, i paradisi della notte cubana. Sono a Santiago, en el barrio San Antonio, el barrio popular, il quartiere povero.
E l’odore, la puzza, è quella delle fogne.
Mi hanno scippato, un’ora fa.
Lì sì c’era la salsa, il rum, la rumba…
Ora invece sono con gli amici dei miei scippatori.
Ho gridato a pieni polmoni che rivolevo le mie cose, ero disposta a pagare, di nuovo, per riaverle.
Vi prego ridatemi la mia borsa: c’è la mia macchina fotografica, la telecamera, ci sono le patenti, mia e di Cristina, c’è il suo telefonino.
Vi prego ridatemi la mia tranquillità. Rivoglio il mio viaggio! Sono arrivata a Cuba da soli tre giorni, devo rimanerci altre due settimane. Non voglio avere paura della gente. Non voglio guardare le persone con sospetto!
Li ho visti gli scippatori. Mentre gli correvo dietro uno ha inciampato e io ho rischiato di prenderlo.
Capisco la vostra sorpresa: sì ho rischiato, perché la loro paura era molto più grande della mia audacia. Li ho visti. Erano due ragazzini. Eppure la disperazione e la forza con cui mi hanno spinto era quella di due uomini.
Ma io non ho paura di due bambini che si mascherano da grandi. I bambini sono bambini. Però ora, vi prego, ridatemi le mie cose.
Sono in macchina con Raul e Santos. Hanno parlato con i due delinquentelli. Hanno intercesso per me. Hanno detto che non sono come gli altri turisti: io parlo spagnolo e ho amici cubani. Si sono fatti dire dove hanno buttato la borsa: Calle Alvarez, mano izquierda.
Santos è più audace. È sua la mano che tiene l’accendino nella fossa del tombino. Si sporge: “No mierda, no es esto!”
Mi innervosisco. Calle Alvarez è lunga e c’è un tombino ogni 10 metri. Mi sento fuori luogo: non sono brava a cercare cose nei tombini, io! Non l’ho mai fatto!
Raul mi osserva. Capisce. Mi dice di rimanere in macchina e chiudere le sicure.
“Ma non potevano venire con noi i vostri eroici amichetti? Non lo troveremo mai così!”. Fanno finta di non capire. Questa è la loro “noche de Cuba” e hanno preso un impegno. Sono loro i protagonisti. Santos sembra quasi divertito. Raul mi osserva in silenzio. Lui non si diverte.
“Aqui esta, chica!” Santos sventola la borsetta come fosse la bandiera cubana. Non la voglio prendere. Non è sporca ma stava pur sempre in una fogna… C’è anche la patente. La apro con timore: “Sì, sono proprio io”. E all’improvviso capisco cosa rappresenti un documento d’identità, specialmente all’estero.
“Bene, ora se volete i soldi, mi dovete dare il portafoglio in cui tenevo le chiavette della valigia”.
Leggo lo sgomento negli occhi di Santos: i delinquentelli gli hanno fornito solo le indicazioni necessarie al ritrovamento della borsetta. Bisognerà contattarli di nuovo. E ci sono io. “Lo que pasa es que ellos no confian”.
“NO CONFIAN?” Loro non si fidano di me? È una situazione paradossale: i miei scippatori non si fidano di me? E io proprio non so come convincerli della mia buona fede. Sto perdendo il controllo.
Raul capisce. Chiama Santos. Parlano, a bassa voce. Tanto non avrei capito lo stesso. Hanno i visi contratti. “OK chica, vamos”. E ricomincio a guidare.
È buio. Le strade non hanno segnali. “Parate chica!” “A la isquierda” “A la derecha”. Mi sembra di essere sull’ottovolante. Le strade di Santiago sembrano disegnate da un urbanista ubriaco: discese, salite, doppi sensi dove a malapena entrano due biciclette. Inizio a canticchiare una canzone in spagnolo: “Estoy aqui, queriendo te…”. Vedo i loro occhi dallo specchietto. Sorridono. Forse pensano che sono un po’ strana. Anch’io lo penso vedendomi in quella situazione.
Li coinvolgo nella mia follia: “Visto che siamo in ballo, balliamo! Provate a imparare qualche parola di italiano: destra, sinistra, frena!”, “Derastra, sinastra”, “Destra! Destra! Ma chi te l’ha detto derastra!”
Ora ridiamo. Ora sono solo bambini.
Arriviamo, dopo aver fatto una ventina di giri attorno allo stesso posto. Dio, come è cubana Cuba qui! È molto più che popolare. I ragazzi mi lasciano sola. Raul mi raccomanda di chiudere le sicure. E io raccomando loro: “Non rischiate troppo. In fin dei conti sono solo oggetti!”
Mi stupisco dei miei pensieri. E inizio a guardarmi attorno. Le case sono state distribuite l’una sull’altra senza un criterio. Ognuna ha il suo terrazzino e le ringhiere sono la vera espressione del talento artistico cubano. Le antenne sfidano la forza di gravità. Non ne ricordo una dritta. L’asfalto è un lusso. Le luci anche.
Ah le luci! Altro che leggi sulla sicurezza: un groviglio di cavi ad altezza uomo su cui appendere i poster del Che, il loro comandante Che Guevara: “Hasta la victoria siempre”. “Juntos Podemos!”
Mi sorprendo a leggere queste frasi con un’enfasi nuova.
“Insieme possiamo!”. Sì è vero! Insieme si può…
Ma dove sono i miei amichetti? Sono le quattro del mattino e arriva il sonno, un lusso che non posso permettermi. È buio. E ho freddo.
Eccoli! Sono soli: i delinquentelli, e le loro madri, e i loro fratelli maggiori, e i loro amici più esperti hanno deciso che è troppo rischioso. Che potrei chiamare la polizia. Denunciarli.
“CHE COSA? È TROPPO RISCHIOSO PER LORO?” Immaginatemi, vi prego: abbasso il finestrino, con la mano destra mi attacco al clacson, stringo la sinistra in un pugno e punto l’indice verso l’alto roteandolo in senso orario.
Prendo un respiro e grido in uno splendido italo-spagnolo che io avevo altri progetti per quella sera, che avevo già pagato caro le cose che stavano nella mia ex-borsa e che ora ero disposta a ricomprarle senza averle mai vendute! E che sono stanca. Che ho freddo. E che se fossi voluta andare dalla polizia l’avrei già fatto! Che sono arrabbiata. Che non sono arrabbiata… Che se anche non potete capirlo, vi sono grata per questa notte. E che ho fame! E che non ho nessuna intenzione di staccarmi dal clacson se non mi ridate indietro le mie cose. CLARO?”
Sembra Natale. Centinaia di piccole luci si accendono. Qualche finestra si apre. Capisco dalle facce impaurite di Raul e di Santos che il mio momento da Al Capone è finito. Apro la portiera. Entrano. Non ce la fanno. Scoppiano a ridere: “Tu eres loca, chica. Loca!”
Dal buio emergono due ragazzi. Chiamano Santos e spariscono. Guardo Raul. È di nuovo serio. Gli dico che porta il nome di un grandissimo calciatore del Real. “Madrid” mi interrompe lui. È il suo idolo, da grande vuole diventare come lui. Da grande Raul? Che occhi che ha, così pieni di speranza. Scende dalla macchina. Non vuole che io scopra quanto è bambino.
Piango. Quasi non respiro. Era lì che dovevano essere stasera: in un campo di calcio illuminato. Tra amici. A sfottersi e a tirarsi calci. E sputi. Come tutti i bambini che giocano al calcio. Non mi importa delle mie cose. Non più. Andiamo via. Dove siete ragazzi?
Riemergono. Sorridono.
“Ganaste!”. Ho vinto?
Ecco le mie cose. C’è proprio tutto. La telecamera e la cassetta di capodanno. Il telefonino di Cristina. Il fermaglio per i capelli. “Li hai convinti. Si fidano di te. Ti accompagnamo in albergo. I soldi li puoi dare a noi e noi glieli porteremo”.
“Destra. Sinastra” “Uffa, sinistra! Ma insomma vi volete impegnare”. Raul mi chiede di frenare. “Mira Marzia! Questo è il campo dove ci alleniamo”.
Un fazzoletto di terra con due porte da calcio fatte con tubi smontabili, pieno di sogni. E un gallo sul recinto ci ricorda che è l’alba.
Sono le sei e mezza quando rientro in albergo. Salgo in stanza. Ho bisogno di fare una doccia prima di proseguire la giornata. Squilla il telefono. Dall’altra parte della cornetta una voce femminile: “Ho visto che vi interessano i ragazzi cubani… Si quieren otros novios – se volete altri fidanzati – ho un figlio bellissimo, costa poco, adora le donne italiane e…”
Attacco. Non voglio ascoltarla.
Allora che ne pensi? Te gusta la noche de Cuba?
Voglio ancora illudermi con i dischi di Compay Segundo, chica.