Se fossi un uomo

   La mattina mi sveglio ancora all’alba. E’ il silenzio. E’ la brezza che mi sfiora le foglie. Ma non ha più senso. Niente ha più senso ormai. Sono restato solo io: un olmo vecchio e nodoso.

   E aspetto. Aspetto i denti elettrici di una sega.

   Qualche volta sussulto: sento ancora un battito d’ali; ma è un battito straniero che vola alto. Sono ali di gabbiano; vengono dal mare. I gabbiani ora hanno gli occhi rapaci, come le aquile che ho conosciuto. Si spingono famelici nell’interno in cerca di una preda e calano veloci ad afferrare un piccione su un tetto. Allora sono contento dei miei rami vuoti. Si degradano a cercare cibo tra i cumuli della spazzatura: se la contendono ai topi, l’immondizia. Ma chi sono io per giudicare? Sono un sopravvissuto, come loro.

    Vivevo in un bosco, ai margini della città. Eravamo in tanti: querce, olmi, pini, platani, cedri. Occupavamo il vasto territorio che dalla collina digradava giungendo fin quasi al mare di cui il vento ci portava il sapore salmastro. Eravamo centinaia. La luce stessa  penetrava a fatica, sottile come una lama di spada tra i nostri rami.

   Quando ero piccolo, alto meno di un metro, dal tronco esile e la corteccia fresca, un qualunque temporale mi poteva spezzare le radici, o un colpo di vento il fusto acerbo. Il nonno, una quercia gigante, la più antica del bosco, mi ripeteva: ”Su con il fusto, non aver paura, gli alberi sono immortali: la Terra ci ha reso tali.”

  Il nonno credeva nel potere degli astri e nella fecondità della dea-madre, come i suoi avi, e soleva  narrare a noi alberelli, le storie della sua infanzia. Allora il bosco si animava, come per magia:  gnomi dagli occhi selvatici come quelli dei gufi,si nascondevano dietro un cespuglio, ninfe dal corpo arabescato come un incrocio di radici, danzavano e riempivano l’aria di sospiri, fate dai piedi leggeri come il vento, vegliavano il sonno degli alberi e li proteggevano dai malefici delle streghe.

   La saggia quercia ci insegnò ad aver paura solo delle fiamme e dei denti affilati delle seghe degli uomini-tagliaboschi.

   Quando fummo più grandi, ci raccontò la storia degli uomini:  quegli strani esseri che ricoprivano le loro pallide e sottili cortecce  di panni e pellicce di animali, che coglievano i fiori solo per vedere, con gli occhi stupiti, i petali gualciti sfiorire nelle loro mani e che calpestavano la terra come fossero i padroni assoluti dell’universo. Ma il nonno aveva fede negli uomini e diceva: “Sono creature tanto giovani, impareranno. E’ scritto negli astri”. Si guardava intorno, sollevava lo sguardo verso il cielo, quasi a chiedere conferma, e ricordava, con voce grave e fiera, che tutta la storia era passata per il bosco e noi avevamo avuto come destino di essere i depositari di quella storia.

   Non ho mai chiesto al nonno quanti anni avesse, quanti re, quanti  eserciti avesse visto  passare. E doveva averne visti, tanto grande era la sua circonferenza e tanto dura la sua scorza.

   A volte parlava di duelli avvenuti all’alba, di battaglie, di cavalieri sui loro destrieri che si scontravano e lasciavano scie di sangue sui tronchi e sull’erba.  Allora mi pareva di sentire per davvero il galoppare dei cavalli, lo stridio del ferro delle spade.

  Tanto tempo fa eravamo il bosco dell’uomo-re. La caccia e le guerre erano i suoi giocattoli preferiti. Tra tutti quelli della sua specie, gli uomini-re erano i più capricciosi.

   L’uomo-re veniva a caccia di fagiani  insieme al suo seguito. Arrivavano tutti a cavallo, a volte con le donne-gracchianti in costume d’amazzone, le trombe  il cui suono spezzava i rami, gli  uomini-valletti per servire, e i  mille fronzoli di cui hanno bisogno gli uomini per sopravvivere. I fagiani li portavano uomini-braccianti, apposta per lui, perché fosse sicuro che sua maestà avesse qualcosa da colpire. E l’uomo-re girava intorno gli occhi, grasso e felice e rideva  a bocca larga :” L’ho colpito! L’ho colpito!”

   Il nonno scuoteva forte le fronde con disapprovazione, perdendo foglie nella forza del diniego. Diceva che quello non era un galantuomo come i suoi avi. Gli uomini-re avevano perso il loro splendore.

  Col tempo divenni un giovane olmo forte e snello. Con la mia statura svettavo alto tra le cime del bosco, ma ciò dopo un po’ non mi diede più nessun piacere. Sì, ora  il cielo appariva più vicino;   scorgevo un lembo di mare da lontano e distinguevo i contorni sfocati di un monte. E mi meravigliai di quante fossero le tonalità  di verde, come se ognuno di noi  fosse un individuo irripetibile; ma  scalpitavo dentro di me. Non provavo nessun orgoglio nel sapere che noi sulla terra eravamo gli esseri più antichi e quelli che sarebbero vissuti più a lungo. Gli uomini vivevano qualche stagione. Ma io non mi sentivo affatto contento di essere un olmo. Mi sembrava piuttosto di avere subito una maledizione.  Mi sentivo punito dall’immobilità a cui la natura ci aveva costretto. Speravo che un sortilegio, uno di quelli in cui credeva il nonno che scrutava ancora gli astri per leggere il destino, portasse un cambiamento alla mia vita. Sognavo che una tempesta mi strappasse le radici dalla terra e mi liberasse. Mi chiedevo che ci fosse al di là del bosco e che estensione avesse il mare, di cui a volte il silenzio mi portava il fragore, e che si provava a galoppare come un cavallo o a volare lontano come le rondini. Mi chiedevo se il mondo fosse tutto contenuto in quel bosco o ci fossero altri esseri sulla terra, oltre a quelli da noi conosciuti. Divenni scontroso Non mi andava più di trascorrere il tempo rivaleggiando in quelle stupide gare: chi aveva le cime più alte, chi perdeva meno foglie, chi ospitava più nidi in primavera. L’ unica cosa che ancora mi andava di fare e, devo riconoscere che gli altri  avevano ragione quando mi accusarono di essere diventato ossessivo, era di giocare a Se fossi un uomo.

   Di notte, quando il vento a tratti taceva e gli uccelli riposavano, si potevano udire le nostre voci: fragili bisbigli di foglie.  Parlavamo degli uomini. Ci chiedevamo che avremmo fatto se fossimo stati loro.

   Adesso che li guardavo dall’alto della mia statura, gli uomini non mi sembravano più esseri sovrannaturali. Li vedevo piccoli e meschini sprecare il poco tempo della loro vita  in bieche rivalità, vendette, guerre distruttive, quando loro avevano avuto dalla natura il dono più grande che a noi non era concesso: la libertà.

   Una mattina all’improvviso il tempo, fatto solo di stagioni che si susseguono eterne, perse la sua continuità: ci fu un prima e un dopo. Vennero gli uomini-corvi, pieni di boria e dal fare solenne. Capimmo che erano lì per noi;  stavano decidendo la nostra sorte. Li vidi osservarci, sotto i loro cappelli scuri, e confabulare sottovoce, come stendessero piani d’ attacco. Misuravano il terreno con i loro minuscoli passi e tornavano indietro. Guardavano lontano verso la linea dell’orizzonte, e avevano lo sguardo con cui il nonno scrutava le stelle. Cogliemmo una parola sconosciuta che poi corse veloce tra noi, come una foglia spinta dal vento, bisbigliata di ramo in ramo: progresso, progresso, progresso.

    E vennero i tagliaboschi con quel canto di morte nelle seghe.

   Vedemmo caderne centinaia: uno dopo l’altro, senza un lamento, finivano al suolo di netto, uno sull’altro, e in breve, diventarono un mucchio, una catasta.

   Giunsero al nonno. La vecchia quercia si ergeva maestosa e muta, senza un fremito di foglie. Ci fu un attimo di sconcerto. I tagliaboschi consultarono  carte, si guardarono, poi guardarono il nonno, come se lui potesse dare risposte. Anche l’aria restò immobile.

   Avevano gli occhi pieni di vile pietà quando imbracciarono le seghe. Estirparono anche le radici. Come non fosse mai vissuto.

   Fu quel giorno che compresi di disprezzarli.

    Sorse una fabbrica.  Torri grigi, alte quanto noi, mandavano fumo sporco e denso, come un incendio perenne che ci anneriva tutti e ci impediva di respirare. E poi vennero su  case su case dalle tinte smorte, tetre come una giornata di pioggia. Il terreno davanti a noi, là dove ancora vedevo i corpi ammassati e portati via, fu rapidamente ricoperto di pesanti lastre, come se si volesse seppellire il passato al più presto;  furono sistemate rotaie parallele e un gigantesco lombrico verde, di metallo, detto tram, con le antenne più lunghe che io abbia mai visto, cominciò a percorrere avanti e indietro quella che una volta era la nostra terra e a rovesciare eserciti di formiche da una parte all’altra.

   Mi chiesi se avessero ucciso anche i cavalli; non li vidi più.

   E le giornate divennero colme di  stridii di mille spade che oscurarono per sempre il suono degli uccelli.

   Io ero cambiato: adesso ero orgoglioso di essere un olmo, e non avrei scambiato le mie radici immobili per nessuno di quegli esseri   che correvano come foglie rinsecchite verso l’inverno.

   E capii che non c’era più niente da vedere oltre il bosco.

   Da allora, ogni tanto arrivavano ottusi ordini di decimazione. E gli ordini, si sa, vanno eseguiti.

   Sapevamo che prima o poi sarebbe capitato a tutti.

  Mentre sogno il passato, mi guardo intorno tra i pali grigi della luce: non c’è più nessuno della mia generazione e della mia specie. Sono l’unico superstite. Allora alzo lo sguardo verso il cielo e le nuvole; testimoni antichi ma insensibili. Non oso sostenere lo sguardo troppo a lungo: li vedo  offuscati dietro ad  un velo; e non so se è colpa della mia vecchiaia, o se sono loro , avvolti nella nebbia, ad essere diversi.  Respiro a fatica; e aspetto, aspetto i  denti elettrici di una sega.

   Stamani sono tornati, dopo tante stagioni, gli uomini-corvi, impettiti come sempre. Ecco, è giunta la mia ora. La morte non mi fa paura, ho solo un rimpianto: avrei voluto lasciare le mie memorie a una nuova generazione. Gli uomini impettiti, certo, sono i pronipoti degli altri, di quelli che si macchiarono dello sterminio. Sono venuti anche le donne-gracchianti e i bambini-vocianti. Si guardano disorientati, fanno fatica a farsi strada verso me e restano  impigliati nella  ragnatela di lamiere e cemento polveroso che  loro stessi hanno intessuto. Arriva la banda, quella delle feste, come una volta. C’è aria d’attesa. Spero che la facciano finita presto. Arriva un uomo più impettito degli altri: l’uomo-tricolore. Lo applaudono. C’è un vociare che m’infastidisce. Vorrei il silenzio, come ultimo desiderio. E invece l’uomo-tricolore si gonfia come un uccello di notte, e impugna uno strano oggetto che gli rende la voce più potente. Parla, parla e poi dice, mentre in sottofondo risuona un fruscio, che è la festa dell’albero, che, insomma, io sono l’Albero e che loro tutti, è risaputo, amano tanto la natura, i prati verdi, gli uccelli e i boschi. Parla di foreste lontane, e dice che io sono tutelato dalla legge, cioè nessuno mi potrà fare del male. Tutti applaudono con mani scroscianti. La banda attacca a suonare. Giungono gli uomini-braccianti, che seguono sempre gli uomini-corvo, ma non sembrano uomini-tagliaboschi: hanno le zappe e scavano buche tutt’intorno. I bambini-vocianti corrono intorno a me e hanno gli occhi eccitati; mi ricordano le lucciole. Ogni bambino-vociante porta un piccolo fusto, esile e gracile, com’ero io un tempo, e lo pianta nella buca.   Volgo lo sguardo al cielo: mi appare limpido come gli occhi freschi dei bambini. Le mie foglie hanno un fremito. Forse non è troppo tardi.

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