Re albero

          C’era una volta un albero.

Come: “Che albero?”! Un albero … un albero, diamine!

          Quand’ero piccolo io, tutte le fiabe cominciavano così: “C’era una volta un re in un paese lontano lontano…” e nessun bambino s’azzardava a domandare quale anno corresse quella volta, chi fosse il re e quale il suo paese. Dire solo che era “lontano lontano” equivaleva a darne nome, cognome, data di nascita e indirizzo. Tanto bastava!

          Ora invece che avete tutti il computer e sapete navigare in Internet volete conoscere l’anno preciso e il luogo, per andarci a cliccare dentro e verificare se dico la verità.

          E va bene! L’anno non so precisamente quale fosse, ma vi posso assicurare che correva l’Era Neozoica. Contenti?

          Dell’albero non conosco il nome scientifico (non mi avrete preso per un botanico!), ma so di certo che apparteneva alla famiglia delle conifere ed era un gigante preistorico, sopravvissuto alla scomparsa dei dinosauri; un vero re del bosco, quasi immortale. Ogni essere vivente della terra che avesse radici era suo discendente e suddito.

          Era ruvido e rigido di carattere (specie nella zona del tronco), superbo e altezzoso (specie nella zona delle alte fronde) e per questo non dava confidenza agli altri esseri viventi dotati di movimento: gli animali e gli uomini.

          Li considerava inferiori e plebei, perché erano costretti a procurarsi il cibo correndo di qua e di là, quasi a chiederlo in elemosina o peggio a rubarlo, e per giunta a spese di altri esseri viventi. I vegetali invece avevano la dispensa sempre piena e non dovevano uscire di casa per fare provviste, potendo invece spendere tutto il loro santo tempo in meditazioni filosofiche silenziose (emettono versi gli alberi?). Cosicché, a furia di pensare, avevano le fronde barbose fino alle radici e si ritenevano i più saggi del mondo. Non si nutrivano d’altre forme di vita ed erano ancorati stabilmente tra terra e cielo, dei quali erano ambasciatori e interpreti.

          Per questo il nostro re non permetteva agli animali di rifugiarvisi o agli uccelli di farci il nido. Aveva solo acconsentito che gli erbivori si nutrissero di erba (considerata vegetale minore) per esplicito contratto sottoscritto con il Creatore. Dopo di che non guardava in faccia nessuno, anche perché non c’erano facce da guardare a quelle altezze; solo un altro mondo fatto di nuvole che sperava di raggiungere e sopravanzare, magari fino alla luna, al sole e alle stelle (che tipo!).

          Solo che, diciamo la verità, qualche volta ai superboni piace guardare in basso, magari  di soppiatto. Fu così che un giorno l’albero adocchiò, presso la grotta vicina al suo smisurato piedone, una famiglia di uomini (ne avrete di certo una diapositiva nel vostro computer: lunghi capelli, braccia robuste, abiti di pelli… ). Il suo sguardo si posò sulla mamma che stringeva al seno una bambina nell’atto di allattarla e di cullarla, mentre mormorava una cantilena incomprensibile ma struggente.

Che posso dirvi? Non so che cosa sia successo alle fibre legnose del vecchio re. Chi l’avrebbe detto che un alberone grande e grosso come una montagna, fosse fatto di un legno tenero tenero come l’erba a primavera!

          Ebbe un tuffo al cuore, sì al suo cuore di legno! E per la prima volta cominciò a barcollare per l’emozione, come fosse investito da un vento impetuoso.

          Ricordò di essere  papà anche lui, ma di non avere mai cullato un germoglio. Egli affidava i semi al vento e i suoi figli nascevano e crescevano lontano, come in un orfanotrofio, e non poteva nemmeno andarli a trovare. Non parliamo poi di alimentarli al suo seno. Cosa avrebbe potuto dar loro?

          Da allora in poi i suoi occhi si dimenticarono delle nuvole e del cielo e si consumavano nel seguire i passi di quella bimba (il suo nome? Vallo a sapere come la chiamava la sua mamma!), che da una stagione all’altra cresceva e diveniva sempre più vispa e bella. I sudditi mormoravano al vento che il loro monarca non era più lui. S’era rimbambito! Era giunto a permettere alla piccola  di accostarsi al suo tronco e l’aveva perfino presa in braccio fra i suoi rami, per cullarla come fosse stato un tenero papà. Poi, non avendo voce propria, chiese (anzi ordinò a gesti) al vento d’intonare una ninna nanna, soffiando tra le sue ramificazioni come un mantice d’organo.     Fece un’altra cosa straordinaria: avvolse intorno ai suoi nudi semi una succosa e saporita polpa (avete presente i frutti, sì vero?), per avere di che “allattare” il suo germoglio adottivo insieme al resto della nidiata che intanto sciamava dalla grotta degli uomini.

Ora che era veramente felice, il grande albero non sentì più il bisogno di fare solitarie e barbose argomentazioni, intento com’era a farsi strapazzare dai nuovi chiassosi rampolli, e finì per diventare un parco giochi vivente per i nostri antenati bambini.

Ma, si sa, tutte le cose belle durano poco! E così un brutto giorno venne un freddissimo inverno che non volle più andar via. S’aspettava la primavera… ma niente! Passarono tante lune… ma niente! Era iniziata la prima glaciazione dell’Era Neozoica (controllate, controllate pure!).

          Tutti i bambini tremanti e intirizziti erano rintanati nelle grotte, abbracciati alle loro mamme per non morire di freddo, mentre i loro papà, pur rischiando la vita andavano a caccia, ma tornavano a mani vuote.

          Il cuore di legno del nostro albero cominciò a tremare anche lui, non per il freddo, che riusciva a tollerare bene, ma per il dolore: i bambini non saltavano più tra i suoi rami ed egli, un giorno dopo l’altro, s’intristiva da morire.

          Un mattino buio e tenebroso di tempesta, il vento portò la brutta notizia: la specie umana era morente, seppellita sotto neve e ghiaccio.

          Allora (avreste dovuto vederlo!) il vecchio cuore del re esplose in una crisi di disperazione. Si scrollò di dosso tutto il cumulo di gelo e gridò alle nubi una preghiera accorata, strappandosi le chiome sotto la sferza del vento. Implorò al suo cielo pietà per la famiglia umana, offrendo la propria vita in riscatto.

          Il cielo l’udì e un fragoroso fulmine avvolse i più alti rami che la terra avesse mai innalzato.

L’albero s’accese come uno zolfanello.

Per un raggio di chilometri e chilometri la neve si sciolse, la vita riprese e lo stuolo di bambini uscì a giocare. Furono i cuccioli d’uomo a portare nella grotta ai diffidenti genitori il dono del loro amico gigante: i frammenti di fuoco del suo cuore caldo e fumante.

          Mentre si consumava avvolto dalle fiamme, l’albero fece testamento e lasciò disposizioni precise a tutti i suoi sudditi.

          Da allora le piante giurarono che nessun conforto sarebbe mancato ai figli dell’uomo e misero perfino a disposizione la loro carne fatta di legno.

          Fu così che il legno è stato sempre come un compagno per l’umanità (cliccate, cliccate e vedrete!). E tutto ciò grazie a una mocciosa, il cui nome non è nemmeno passato alla storia e che non troverete neanche nel vostro computer!

Che dite? Come faccio a sapere questa storia se nel computer non c’è?

Oh bella, me l’ha raccontata il vento!

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