Era nata il 4 novembre 1902 e a vent’anni, nel giorno del suo compleanno – e nell’anno in cui quel giorno sarebbe diventato per l’intero paese una data da celebrare – Ortensia si era sposata. Se i tempi non fossero stati così bui, il 4 novembre 1944 Ortensia avrebbe festeggiato il ventiduesimo anniversario del suo matrimonio e il suo quarantaduesimo compleanno: ma nell’estate di quell’anno, il 5 luglio, Ortensia morì.
D’estate, il giardino della nonna era un tripudio di colori: accanto al violetto tenue delle campanule, il giallo delle zinnie e il porpora delle petunie si mescolavano al verde rigoglioso del fogliame. Ma la fioritura più sontuosa era quella che esibivano le aiuole di ortensie nei loro mazzi fitti di corolle bianche, rosa carnicino e azzurro intenso. Così, finché continuai a passare le mie vacanze estive dai nonni, era proprio fra le ortensie dai fiori azzurri che io e la nonna, la mattina di ogni 5 luglio, sceglievamo e coglievamo il mazzolino più recente, quello i cui petali compatti assumevano un colore simile al cobalto. Poi, dopo averne immerso lo stelo in un vasetto d’acqua nuova, andavamo insieme a disporre quell’azzurro davanti a una delle cornici che la nonna teneva sul comò della camera da letto. Fra tutte, quella cornice era la più particolare, perché conteneva il ritratto non di uno, ma di tre volti diversi. I contorni di quei visi apparivano sfocati, ma i loro tratti appena delineati bastavano a comporre le immagini di un uomo dall’espressione seria e riservata, di un giovane sulle cui labbra affiorava un vago sorriso, di una donna che aveva qualcosa di vivido nello sguardo e nell’onda corvina dei capelli che le contornavano il viso. “ Questa signora si chiamava proprio Ortensia – mi aveva spiegato la nonna – questo era suo marito Mariano, e questo il loro figlio più giovane, Ennio: aveva appena diciott’anni. Sono morti tutti e tre lo stesso giorno, il 5 luglio 1944. E’ stata la guerra…” Alla nonna si velavano gli occhi di pianto, e non aggiungeva altro. Né io pensai mai di chiederle di più: andando a scuola, avevo studiato la seconda guerra mondiale e imparato come, durante l’ultimo anno di conflitto, il territorio di Chioggia, la nostra città, avesse subito bombardamenti nel corso dei quali c’erano state vittime anche fra la popolazione civile. Ennio, Mariano e Ortensia – le sfortunate persone della foto – erano morte insieme durante uno di quei bombardamenti, pensavo. E stringevo la mano alla nonna, per condividere la sua pena e offrirle il mio conforto.
Non sapevo, allora, che nella lapide collocata il 17 marzo 1946 nel sottoportico del nostro palazzo comunale, quei nomi incisi nel marmo figurano per primi fra i nomi dei chioggiotti che la città – da poco liberata dal nazifascismo – voleva fossero per sempre ricordati. E che quello di Ortensia è l’unico nome femminile che l’elenco contenga.
Mentre la trascinavano lungo l’argine del canale nella luce abbacinante di quel pomeriggio di luglio, Ortensia non provava quasi più dolore, né paura. Guardava l’acqua verde scorrere quietamente fra i canneti, fra i cespugli di rovi e bacche selvatiche, e si sentiva invadere da uno stupore nuovo per la bellezza di quei luoghi che erano i suoi e dove, prima bambina e poi giovane sposa e madre, era vissuta senza quasi avvertirne la malia. Ma nel momento in cui girava il capo all’oro dei campi falciati di fresco come a cercarvi una sagoma amica, due colpi brutali alle spalle e alla testa la costrinsero a chinare la fronte e lo sguardo, a soffocare il singulto che le saliva alla gola. ( “Non piangere, Ortensia” – le sussurrava suo padre chinandosi su di lei per parlarle all’orecchio mentre le accarezzava i capelli, – “ tu non sei una bambina come le altre. Sei forte e coraggiosa come i tuoi fratelli, e da grande non ti comporterai mai come una femminuccia qualsiasi.” ). “ Papà ”- chiamò ora Ortensia nel suo cuore – “ papà, dove sei? Aiutami, papà…” E pensando questo, il dolore al petto ricominciò.
Quel dolore era arrivato molto prima del colpo assestatole col calcio del fucile da uno degli uomini in camicia nera che qualche ora prima avevano fatto irruzione nella sua casa. Era cominciato quando gli occhi di Ortensia avevano incontrato lo sguardo di uno degli assalitori: era lo stesso sguardo che, la domenica di tre giorni avanti, aveva sorpreso lei e suo figlio Ennio comparendo sulla soglia della cucina adiacente all’osteria che Mariano e Ortensia avevano aperto nei pressi del bosco Nordio poco dopo essersi sposati. Da allora, la gestivano insieme; mentre il piccolo spaccio di alimentari e mercerie sortole accanto, era da subito diventato l’incontrastato regno di Ortensia. Quel due luglio, all’osteria si erano presentati in quindici: ragazzi che avevano più o meno l’età di Armando e Luciano – i figli più grandi di Mariano e Ortensia- e che si erano immediatamente qualificati come ribelli, partigiani alla ricerca di un luogo in cui qualcuno di buon cuore accettasse di sfamarli, visto che venivano da lontano ed erano quasi digiuni da giorni. A Ortensia e al marito era già capitato di ospitare e dar da mangiare a qualche giovane forestiero renitente alla leva o intenzionato ad unirsi ai gruppi di partigiani che si nascondevano in quelle campagne; e Ortensia non era donna da rifiutare il suo aiuto a giovani il cui sentire era così simile a quello di Mariano, dei suoi figli, e al suo. Ma accogliere e preparare in tutta fretta un pasto per quindici affamati, oltre ai suoi di casa, era un impegno non da poco: per questo, mentre si affaccendava intorno al tegame incastrato nella piastra di ghisa della cucina, il cipiglio dei momenti gravi si era sostituito nel suo volto all’espressione aperta e ridente che le era usuale. Quel cipiglio, Ennio, il più giovane dei suoi figli, lo conosceva bene: e altrettanto bene sapeva come scioglierlo. Mentre Ortensia mondava e tagliava le verdure raccolte in fretta nell’orto per abbrustolirle insieme alla polenta già pronta, Ennio le era giunto alle spalle e, abbracciandola stretta mentre le scioglieva con una risata il nodo del grembiule, le aveva schioccato sul collo un bacio fragoroso. Ortensia si era voltata simulando un moto di stizza, ma le sue labbra trattenevano a fatica il sorriso complice strappatole dal figlio più giovane, il suo prediletto. Era stato in quel momento e in quell’atto che, comparendo sulla soglia della cucina, l’aveva sorpresa e raggelata lo sguardo freddo, concentrato e malevolo del partigiano presentatosi come Luca.
Quel pomeriggio, durante la retata delle Brigate nere, ai fascisti che perquisivano e devastavano la sua casa, l’osteria e la bottega, minacciandola perché rivelasse dove si fossero nascosti i suoi figli, Ortensia – sorpresa in casa da sola- continuò ostinatamente a negare che i suoi figli avessero avuto qualche ragione per nascondersi. Giurava che non erano renitenti alla leva, visto che Ennio aveva appena diciott’anni, mentre Luciano, dopo aver fatto la campagna di Russia, ora intendeva presentarsi con Armando al comando tedesco per offrirsi di lavorare alla TODT. Non smise di ripeterlo finché, sul vano della porta spalancata, vide comparire il “partigiano” Luca. Mentre il giovane avanzava, fissandola senza parlare, Ortensia capì. I “ragazzi” che la domenica aveva accolto, erano venuti a piazzare nella sua casa una trappola: con un sibilo sinistro, ora la tagliola scattava.
Un manrovescio l’aveva colpita alla bocca, facendola sanguinare: “Com’è che adesso taci, troia? Sei una sporca comunista! Lo sappiamo che qui siete tutti comunisti. Gente piena di compassione per chi viene a chiedere aiuto. Ma sai come finiscono quelli come voi? Come i sorci di fogna finiscono, annegati nella loro pietà…” L’avevano afferrata per un braccio e trascinata fuori, fino ad un carro riempito con quanto avevano razziato nella casa, nell’osteria e nello spaccio. “ Adesso vediamo fin dove arriva la compassione dei tuoi figli. Vediamo se riusciamo a stanarli…” Solo quando aveva visto le taniche di petrolio, e il fuoco, Ortensia aveva urlato. In ginocchio davanti alla casa che bruciava, il suo pianto desolato si era mescolato al guaito straziante di Perla, la cagnetta di Ennio che le camicie nere avevano imprigionato a una catena arrugginita che pendeva dal muro del cortile. Singhiozzava Ortensia, mentre gli assalitori la trattenevano per le braccia costringendola a guardare la sua casa che veniva ridotta in cenere. Poi, l’avevano trascinata via.
Ortensia non sapeva quanto tempo fosse passato da allora. Mentre il sole ancora alto faceva sfumare in un tremolio indistinto il confine della strada che stava percorrendo, anche i suoi pensieri si facevano incerti e confusi. A tratti, quello che le stava accadendo, sembrava assumere i contorni bizzarri e paurosi di un sogno penoso. Ma ogni volta che sbatteva le palpebre per risvegliarsi, Ortensia doveva riconoscere come il dolore che sentiva alle braccia, alle gambe, alla base del collo e alle spalle, avesse la solida compattezza della realtà. Quando arrivarono al paese, a Cavanella, e attraversarono la piazza deserta, Ortensia si avvide che gli scuri e le porte delle case, il portone della chiesa, erano sbarrati. Perfino gli orti e i fiori nei giardini sembravano pietrificati in un terrore muto e senza scampo. “Faccetta nera,/ bell’abissina/…” : il canto degli uomini che la conducevano rimbombò nel vuoto irreale delle vie, ma trovò risposta nel coro di altri fascisti in attesa sull’argine dell’Adige. Lì, poco lontano dalla ferrovia, i suoi aguzzini la fecero fermare fra gli applausi e le grida di esultanza dei compagni prima di afferrarla per le spalle e spingerla brutalmente a terra, dove lei rimase inerte, con le membra che le si intorpidivano nell’immobilità e nel calore di quel pomeriggio di luglio che sembrava non dovesse finire mai. Il cielo sfolgorava di una luce così chiara da ferire lo sguardo. Ma Ortensia teneva gli occhi abbassati a fissare lo scorrere placido del fiume simile a una stoffa pregiata, a uno di quei tessuti morbidi e lisci che, con gesto abile ed esperto, era solita dispiegare sul banco della merceria davanti allo sguardo ingenuamente affascinato delle sue rustiche clienti. Intorno a lei, gli uomini mangiavano e bevevano. Passandole accanto, qualcuno le allungava una pedata come a un cane rognoso, qualcun altro le sputava addosso chiamandola “comunista” e “puttana”. Ma Ortensia sussultava appena, raggomitolandosi ancora un po’ di più su se stessa come un povero animale ferito. Fu la voce stentorea e autorevole di un nuovo arrivato, a ridestarla dal torpore nel quale era misericordiosamente caduta: “ Bravi, vedo che non siete tornati a mani vuote! ” disse a quello che aveva guidato la spedizione contro la casa di Ortensia. E l’altro rispose: “ Per ora abbiamo portato delle provviste, oltre a qualche robetta da regalare alle nostre belle. E la donna. In casa c’era solo lei, ma sono pronto a scommettere che anche qualcun altro finirà per farsi vivo…” In quel momento, fu come se l’invisibile lama acuminata che tre giorni prima aveva sfiorato Ortensia preparandosi ad affondarle fin nelle viscere, con un movimento fulmineo salisse a squarciarla fino al cuore e al cervello. Allora, Ortensia tentò di pregare. Pregava perché Dio esistesse. Pregava Dio di esistere: per vegliare su Mariano, per proteggere i suoi figli. Lo pregava di trattenerli lontani da lì, lontani da lei che moriva.
Invece, Mariano venne. Corse a raggiungerla perché non volle credere di non poterla salvare, la sua Ortensia: ma con lei trovò la morte sotto una raffica di colpi sparati a distanza sempre più ravvicinata.
Sedici giorni dopo, il cadavere di Ennio Baldin veniva recuperato in mare da un gruppo di pescatori del luogo.