Chiuse la fibbia. Quando controllò la cintura pensò agli ulivi a Hebron. – Amina, mia vita, mia sposa – sussurrò. Inalò il profumo suadente di quel ricordo dominando così la paura. Scese in strada, attraversò il suq, attese al Checkpoint. A Gerusalemme ovest raccolse una manciata di terra ocra.
La ricordava di quel colore la terra di Palestina, non bruciata e sterile come ciò che rimase al posto della sua casa dopo il missile qassam. Entrò nell’autobus. Pochi istanti prima che sulla sua dishdashah bianca, e su altre sei sbocciasse un campo di papaveri, sentì risuonare nella testa le urla di dolore, nel cuore l’orrore delle membra dilaniate, e in bocca, il sapore acido del terrore. – Amina mia vita, mia sposa, – sussurrò dolcemente. Arrestò la mano sulla cintura. Si guardò intorno, smarrito. Presagì il dolore, l’orrore, il sapore, degli altri. Sarebbe stato come il suo. Come quelle di Amina. Scese. Si sedette su una panchina. Rivisse attimo per attimo ciò che pochi istanti prima stava per compiere. Quel suo ultimo respiro di rabbia vendetta e vita.
Quella esplosione di sangue morte e liberazione.
Ma nessun grido si udì in quell’autobus.
Nessun grido. Né Allah né akbar. Solo: – Amina, mia vita, mia sposa -.
Guardò in alto. A tutti i cieli trafitti di campanili e minareti.
Pianse. E chiese al Dio di tutti gli uomini, e agli uomini, la pace.
Per chi fosse interessato agli scrittori che parlano di queste terre mertoriate:
https://adopera.wordpress.com/2014/02/02/ninente-piu-di-un-romanzo-parte-1/