La domanda

“Di chi è la terra? Di chi è la terra?”. Mio nonno continuava a urlarlo mentre i carabinieri lo portavano via. Il capo reclinato all’indietro, il collo solcato dalle vene ingrossate, il volto carminio, colorato dai capillari rotti, la chioma canuta ma ancora folta, nonostante i 65 anni. Fu l’ultima volta che lo vidi. Io rimasi all’alpe a casa di mio zio, in attesa che mia madre venisse a riprendermi.

Nessuno dopo la guerra aveva più caricato la Colma. Erano passati decenni. Poi mio nonno era andato in pensione, dopo 35 anni a respirare carburo in fabbrica. Ed era salito lassù. “Torno in montagna a combattere”, aveva scherzato mostrando a mia madre la ferita sul braccio rimediata da alpino in Albania. Aveva occupato una baita, sistemato il tetto, pulito il camino. E aveva iniziato a dissodare, e poi a seminare patate, e granturco, e alcuni semi venuti da Oriente, vicino all’insalata e alle piante di zucca. E poi aveva alzato la staccionata per riparare l’orto dai cervi e dalle altre bestie. E l’anno dopo aveva dissodato ancora, e quello dopo ancor di più. E aveva piantato gli alberi da frutto:  i meli e i peri, i noci e i ciliegi. Finché tutti i terreni attorno all’alpe erano stati coltivati. E quando qualche escursionista sbagliava sentiero e finiva alla Colma, a quell’alpe che portava solo a un precipizio dall’altro lato, ma che era esposto a sud come nessun altro terreno della valle; allora quel viandante si fermava estasiato, e riempiva di complimenti il nonno. E diceva che avrebbero dovuto scriverlo sul giornale. E allora il nonno tirava fuori le sue conserve e regalava un vasetto al passante.

Ad aiutarlo nei campi, d’estate, saliva anche mio zio, che aveva una baita nell’alpeggio sottostante. E anch’io appena fui in grado di tenere in mano lo zappino, iniziai a passare l’estate alla Colma. E alla sera sui materassi di fieno e sotto le coperte ispide, per addormentarmi mi facevo raccontare le storie di guerra.

“Mi han fatto prigioniero; volevano che sparassi per i crucchi, ma a me stavano qui”. E picchiava forte con tre dita sopra lo sterno.

E poi raccontava del campo in Germania dove fu rinchiuso, dei tre mesi impiegati dopo l’arrivo dei Russi per tornare a casa. E che pensava di essere libero, e invece era finito in fabbrica. E allora mi diceva: “Alzati! Alzati!” e mi portava sul ballatoio. L’aria di fine giugno sapeva di fieno ed elettricità, oltre le cime lampeggiava, e il chiarore illuminava lo strapiombo sotto il balcone. E lui mi diceva: “Ricordatelo. Questo è il profumo della libertà. Sa di fatica e fa paura, ma se lo respiri non puoi farne a meno”.

La voce del pensionato che aveva trasformato l’alpe in una piantagione iniziò a spargersi, e finì veramente sul giornale. E l’articolo lo lessero anche alcuni signori, che andarono al catasto e scoprirono che la Colma era roba loro. O meglio, dei loro avi; quindi se il vecchio voleva restare lì a coltivare sopra l’abisso, doveva pagarli. Un affitto? Anche. Meglio ancora se avesse tirato fuori un bel mucchio di soldi: il rogito a suo nome era già bello e pronto. Ma quando salirono a parlare col nonno, lui disse: “Vi aspettavo, siete venuti a pagarmi per aver custodito le vostre terre? Per averle mantenute e migliorate? Per aver cavato frutti dalla pietraia?”

E così quelli scesero dopo aver scambiato urla col nonno, e andarono dritti dal maresciallo. E questi disse loro che bisognava verificare, perché la legge… l’usucapione… E allora andarono dall’avvocato che disse che sarebbe stato come bere un bicchier d’acqua, perché il vecchio non poteva dimostrare che fosse lì da più di vent’anni. E quindi doveva sloggiare. Con le buone o con le cattive. E alla fine furono le cattive. Coi carabinieri, con mio nonno che urla “Di chi è la terra?”, io che lo vedo andar via. E non so che sarebbe stata l’ultima volta che l’avrei visto. Che in caserma un infarto l’avrebbe zittito per sempre. Che non avrebbe avuto risposta alla sua domanda.

Avevo 11 anni e decisi che nella vita avrei fatto il brigante o l’avvocato. Il corso di laurea c’era solo in Giurisprudenza e scelsi di indossare la toga. E nel tempo perso di frugare negli archivi. Di consultare mappe e documenti. E oggi ho vinto la causa contro gli eredi della Colma. In base a un atto in cui un conte, cinque secoli fa, con tanto di sigillo, stabilì che la Colma era coltivabile a uso civico da tutta la popolazione.

Domani lascerò la professione e andrò a comprare la zappa, la vanga, le sementi, la canna dell’acqua. E salirò alla Colma. La falce ce l’ho già. E’ quella del nonno che ho tenuto in cantina, assieme alla roncola e al falcetto, e al fazzoletto che si legava al collo per raccogliere il sudore. Che gli scendeva sulla fronte, che gli colava sulle palpebre, e allora lui si voltava verso di me e mi strizzava l’occhio.

Ci ho messo trent’anni, nonno, ma ti ho risposto: la terra è di tutti.

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