Parto lasciando l’Italia sotto la neve. Questa volta mi sono imposto di staccare la spina con tutti: amici e colleghi giornalisti, gufi, rosiconi e malpancisti. Poche telefonate, e solo ai miei anziani genitori. Vivrò per tre settimane in un’oasi di natura, riposo e letture.
Sono a Cuba. Ottomila chilometri da casa. Mi rilasso alla guida di una vecchia lambretta a un passo dall’oceano, sotto un cielo cristallino, graffiato da nuvole vagabonde. La sera, passeggiando per i portici dell’Habana Vieja, non odo sibili minacciosi di sirene e la mattina non subisco il quotidiano attacco dei telegiornali zeppi di notizie funeste.
Trascorro i giorni in totale disinteresse per il mio lontano Paese, assaporando il gusto di una specie di vendetta: scannatevi pure, tanto io qui vivo in pace.
Un taxi mi porta a Cayo Jutias, dove mi fermerò per una settimana. Vegetazione splendida. Sabbia bianchissima. Acqua cristallina. Lunghe passeggiate in mezzo alle mangrovie, pranzi con musica dal vivo e balli caraibici. La popolazione locale vive di pesca e frutta, al ritmo del sole che tramonta dietro gli scogli: l’assenza di desideri complicati evita loro la noia.
E se decidessi di rimanere qui per sempre? Perché no. Potrei scrollarmi di dosso fatiche e delusioni, vendere mobilio e villetta con mutuo, recuperare ciò che resta della liquidazione e con il ricavato comprare una barchetta a vela e vagabondare fra queste isole, saziarmi anch’io di pesce e frutti esotici, ebbro di sole e di mare.
Ne parlo all’amico che divide con me l’avventura di questa vacanza tra fantasia e realtà, ma non ottengo risposte sensate.
Invidio chi sa dare un taglio netto al passato, abbandonando i luoghi dove è nato e in cui vive a disagio da anni, sopraffatto dall’inciviltà dilagante di una società che in apparenza non mancherebbe di nulla e invece è priva di un bene essenziale: l’umanità.
Tutti propositi bellissimi, ma che, mi secca doverlo ammettere, non fanno per me. Sono qui da due settimane e già sento che la lancetta dell’autonomia volge al rosso. La mia vita, un po’ come tutti, scorre tra i soliti binari: parenti, amici, routine, un lavoro in continua rincorsa della notizia clamorosa e l’illusione di potermi spendere per un mondo migliore. Ingredienti scomodi che però sono l’amalgama di cui sono fatto: troppo tardi per pensare di poterlo cambiare.
Al ritorno passerò un giorno intero a sfogliare i giornali dell’ultimo mese, come uno scolaretto che torna a scuola dopo una lunga assenza e deve velocemente allinearsi al programma. La conta di stupri e scandali mi rimetterà alla pari. Scommetto che succedono più disastri da noi in due settimane che qui in cinque anni. So quello che mi aspetta e certo non ne godo, eppure già conto le ore che mi separano dalla partenza. Scomunicatemi se volete, non vi posso dare torto, ma preferisco il mio Paese. M’incazzerò e imprecherò ogni giorno, ma alla fine troverò sempre una ragione per continuare a lottare.
Hanno un bel dire quelli che sono riusciti a rifarsi una vita fregandosene del loro passato: io riesco per miracolo a galleggiare restando fermo esattamente là dove la mia storia è iniziata.
Non so perché, ma se penso a Cuba, penso solo alla musica.